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Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

lunedì 7 dicembre 2015

UNA MISERICORDIA DAI MILLE VOLTI (3)


UNA MISERICORDIA DAI MILLE VOLTI (3)

Misericordia e Shoah?  Ani maamin…

Nel Salmo 136, come abbiamo visto, la misericordia di Dio deve essere considerata “da un certo punto di vista”, nel caso specifico, dal punto di vista di Israele. Per gli Egiziani, gli Amorrei, gli abitanti di Basan la cosa diventa problematica perché si tratta di nemici del popolo che Dio vuole liberare e che si oppongono con la violenza a questo progetto. I ricordi di quei fatti sottolineano con dovizia di particolari a volte contrastanti, l’ostinazione del faraone che rifiuta di acconsentire alle richieste di Mosè. Nel loro insieme i racconti forniscono una giustificazione plausibile all’uso della violenza da parte di Dio.

Non si trovava sempre un angelo paziente e buono che addormentasse i carcerieri per liberare senza violenza i suoi protetti, come accadrà in tempi successivi a Pietro che non voleva credere ai suoi occhi tanto era impensabile una uscita dal carcere così soft (Atti 12,6-11).

Ma con la Shoah è il popolo protetto da Dio ad essere colpito dalla piaga dello sterminio sistematico condotto con metodi scientifici. Israele aveva già sperimentato più volte nella sua storia la durezza dei castighi mandati dal cielo. I profeti erano riusciti a trovare argomenti che avevano aiutato i loro contemporanei a metabolizzare le tragedie e a trovare motivi di speranza in un futuro migliore. Solo una fede a tutta prova aveva saputo coniugare la misericordia divina con una severità confinante con la crudeltà.

E a metà dell’ultimo secolo di un millennio che sentivano estraneo, gli Ebrei hanno risposto al pazzo criminale che voleva eliminarli per sempre dalla faccia della terra, con la fede di Maimonide cantata sommessamente varcando la soglia di quei cancelli che promettevano una libertà raggiunta solo uscendo come fumo dai camini dei forni crematori.

Ani maamin… Io credo, io ripeto il mio Amen di fronte al mistero incomprensibile di un Dio che mi ama anche se ha permesso che fossi ridotto come “un verme, non uomo, infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo” (Salmo 22,7).

Le stesse parole erano state dette da un altro Ebreo che prima di morire inchiodato su una croce, si era sentito abbandonato proprio da quel Dio che aveva insegnato a considerare come un padre.

Ani maamin… Io credo con fede completa che il Creatore, benedetto sia il Suo Nome, è il Creatore e la Guida di ogni essere creato, e che Egli soltanto ha fatto, fa e farà ogni cosa.

Ani maamin…Io credo con fede completa che il Creatore… è Uno e Unico, che non esiste altra Unità come Lui, e che Egli solo è il nostro Dio, lo è stato e lo sarà.

Ani maamin…Io credo con fede completa che il Creatore… ricompensa coloro che osservano i Suoi precetti e punisce coloro che li trasgrediscono.

Ani maamin…Io credo con fede completa nell'avvento del Messia e, sebbene possa tardare, aspetterò ogni giorno la sua venuta.

Ani maamin…Io credo con fede completa che ci sarà la risurrezione dalla morte nel tempo in cui lo vorrà il Creatore, benedetto sia il Suo Nome ed in eterno esaltato il Suo ricordo.

Tra i mille volti con cui si presenta la misericordia del Dio della Bibbia questo è il più incomprensibile. Vorremmo cancellarlo da quelle pagine, vorremmo eliminarlo dalla nostra vita. Lo vorrebbe anche Dio, come aveva capito Geremia quando scriveva “Come vorrei considerarti tra i miei figli… Io pensavo: Voi mi direte: Padre mio, e non tralascerete di seguirmi” (3,19).

È questa l’unica possibilità che ci è offerta per evitare il ripetersi delle tragedie del passato che continuano ancora a colpire l’umanità. Non basta ripetere stancamente le parole di Gesù “Venga il tuo regno. Sia fatta la tua volontà” nella forma impersonale con cui ci sono state tramandate, aspettando che qualcuno imprecisato costruisca il regno e faccia la volontà di Dio. Bisogna arrivare a coniugare quei verbi alla prima persona singolare e plurale “Voglio/vogliamo costruire il tuo regno. Voglio/vogliamo fare la tua volontà”. La Bibbia ci dice come fare, ci presenta un progetto e ci dice che abbiamo a disposizione tutti i materiali necessari per realizzarlo, ci promette anche l’assistenza continua del progettista. Ma tocca a noi organizzare i lavori ed eseguirli. E questo non è facile e richiede impegno e fatica. Sarebbe meglio che intervenisse Dio, come ha già fatto quando ci ha liberati dall’Egitto, stando a quanto ci hanno raccontato i nostri padri, siamo tentati di dire.

Così pensavano anche gli esuli ebrei nei momenti difficili della ricostruzione dopo la fine dell’esilio a Babilonia e invocavano il Signore con parole accorate: “Rinnova i segni e compi altri prodigi, glorifica la tua mano e il tuo braccio destro” (Siracide 36,5). È lo stesso atteggiamento che sembra bloccare anche i cristiani nella costruzione della Chiesa. In realtà ne abbiamo costruite molte, forse anche troppe, tant’è vero che ne abbiamo trasformato un certo numero in magazzini, sale di spettacolo, aule di tribunale, palestre e discoteche o le abbiamo abbandonate all’incuria. Continuiamo a erigere cattedrali sfarzose in mezzo a baraccopoli abitate da miserabili, conserviamo nei musei diocesani i “tesori” della chiesa ereditati dai secoli passati, mostriamo con orgoglio le opere d’arte commissionate da mecenati devoti, celebriamo liturgie solenni sfoggiando costumi impossibili ereditati da epoche e culture lontane da noi, organizziamo incontri con milioni di partecipanti che si distinguono dagli omologhi laici solo per l’assenza di ballerine svestite.

Nelle nostre cerimonie ci siamo liberati delle parrucche incipriate lasciandole ai lord del Parlamento di Londra, ma abbiamo conservato fino a poco tempo fa la coda ai porporati (… e che dolore quando l’hanno tagliata! commentava allora un alto prelato). Abbiamo eliminato i flabelli ma non le divise per distinguere i vari “gradi” della gerarchia con colori e fogge diversi. Si fosse almeno sentita la necessità di suggerire durante il rito della vestizione delle “insegne” la recita delle belle parole attribuite alla regina Ester: “Tu sai che mi trovo nella necessità, che detesto l’emblema della mia fastosa posizione che cinge il mio capo nei giorni in cui devo fare comparsa; lo detesto come un panno immondo” (Ester 4,17v). Certamente, il contesto è diverso e si è preferito pensare alla descrizione entusiastica fatta dal Siracide quando presenta il sommo sacerdote Simone paragonato alle cose più belle e preziose “quando indossava i paramenti solenni, quando si rivestiva con gli ornamenti più belli, salendo i gradini del santo altare dei sacrifici, riempiva di gloria l’intero santuario” (Siracide 50,11).

Eppure Gesù era stato molto chiaro sul valore di segni analoghi e di titoli onorifici in voga tra i notabili del suo tempo quando diceva: “Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filatteri e allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare ‘rabbi’ dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare ‘rabbi’, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli” (Matteo 23,5-8; Marco 12,38-40; Luca 20,45,47).

Abbiamo conservato molte di queste strutture laiche e antiquate fino a sacralizzare il colore delle scarpe del papa. Ma non siamo riusciti a costruire la vera Chiesa pensata da Gesù secondo altre categorie e ci siamo persi dietro a dispute per il potere scopiazzando o inventando titoli onorifici, ci siamo divisi discutendo sul sesso degli angeli, siamo riusciti a frantumare quella che doveva essere l’unico Corpo di Cristo.

Di fronte a questo spettacolo, che potrà anche sembrare descritto con toni caricaturali, crediamo che nonostante tutto Dio ci viene incontro con la sua misericordia ed è pronto ad accoglierci. A patto che la smettiamo di correre dietro ai fantasmi sbandierati da una società fallimentare che però continua a lanciare i suoi richiami ingannevoli. Ma il Dio misericordioso presentatoci dalla Bibbia ci dice anche che tocca a noi fare il primo passo. Lui ci verrà incontro, non ci chiederà nemmeno di fare una pubblica abiura. L’unica condizione è che cambiamo davvero il nostro modo di vivere e che facciamo nostro il suo modo di vedere il mondo. Non ci chiede poco, è vero, ma è l’unico modo per essere felici.

La Bolla di indizione dell’anno giubilare

Misericordiae vultus è il titolo della Bolla e il volto è quello di Gesù. Effettivamente “quel volto” sintetizza tutte le sfumature che abbiamo rilevato leggendo i testi biblici e anche quelle che non sono emerse in una ricerca rapida. Il nostro sforzo dovrebbe mirare a scoprire attraverso le espressioni del volto del Maestro le sue reazioni ai comportamenti degli apostoli, delle folle, dei farisei, dei sadducei, dell’adultera, della vedova che accompagna il feretro del figlio. Dovremmo spiegare le sue lacrime di fronte alla tomba dell’amico Lazzaro, il suo sorriso quando abbraccia i bambini, la sua indignazione quando denuncia l’arrivismo meschino dei due figli di Zebedeo, l’espressione disperata quando si sente abbandonato da Dio.

In tutte queste situazioni Gesù manifesta la misericordia del Padre che non si esaurisce nelle raffigurazioni statiche dei singoli artisti, ma che dovrebbe essere ricostruita unendo le mille immagini che la rappresentano. È una ricerca troppo impegnativa per essere presentata in un documento ufficiale o anche solo in un articolo necessariamente limitato. Tuttavia è possibile offrire delle tracce per approfondire personalmente la ricchezza di insegnamenti presenti nelle pagine bibliche.

I testi della Bibbia che ho cercato di leggere nel loro contesto letterario sono citati anche nella Bolla di indizione dell’anno giubilare, insieme a tanti altri dello stesso tenore. Il documento del papa sembra sensibile alle difficoltà di mettere insieme le due facce della medaglia anche se continua a sottolineare gli aspetti gradevoli e incoraggianti legati alla qualità di Dio. In questo la Bolla segue fedelmente la tradizione, rappresentata dall’Enciclica Dives in misericordia non per niente citata diverse volte e proprio in passi che aprono la strada a capire perché Dio deve essere misericordioso. È il comportamento negativo dell’uomo che dà a Dio l’occasione di manifestare il lato positivo. Potremmo parafrasare un noto testo della liturgia: “O felix culpa” dell’umanità che offre a Dio l’occasione di farsi conoscere per quello che è: un Padre che ama tutti i suoi figli anche se in modo a volte incomprensibile.

Senza i “miseri” non esiste misericordia. L’unico ostacolo alla misericordia è il non riconoscere di averne bisogno. Per usare un termine “tecnico” è la “hybris” dei testi greci che possiamo interpretare come “arroganza violenta, tracotanza, autosufficienza insolente, disprezzo degli altri (compreso Dio), godimento sadico nel far soffrire chi è ritenuto nemico” che si oppone alla misericordia. Il riconoscimento della propria “miseria” (che non ha bisogno di grandi segni esteriori, flagellazioni, processioni di incappucciati, digiuni ostentati alla TV o sui giornali…) è la condizione per un incontro con Dio nella verità. Come abbiamo visto non è soltanto l’esperienza a dirlo ma lo afferma la Bibbia stessa in testi espliciti e nel contesto generale. Queste osservazioni dovrebbero permettere di affrontare il problema del male con una certa serenità che non va confusa con l’indifferenza né con l’approvazione o la connivenza.

In questa prospettiva mi pare che la Bolla possa essere divisa in due parti. La prima (nn. 1-9) presenta un repertorio di testi biblici sul tema della misericordia, commentati secondo i criteri interpretativi tradizionali. La seconda parte (nn. 10-25) tenta un approccio alle difficoltà che sorgono da una lettura che ho chiamato “tematica” o “selettiva” in quanto mette in luce soltanto un aspetto dell’insegnamento dato dalla Bibbia. La svolta è evidente soprattutto nel n. 10 dove compare il tema della “giustizia” che sembra contrapporsi alla misericordia. Il tema è ripreso ampiamente nei nn. 19-21 fino a dichiarare in modo netto: “ Chi sbaglia dovrà scontare la pena”, con la precisazione doverosa “che questo non è il fine, ma l’inizio della conversione, perché si sperimenta la tenerezza del perdono”.

* * *

Per concludere un discorso che meriterebbe uno sviluppo molto più ampio, ci tengo a chiarire che non intendo affatto dare dei suggerimenti al papa. C’è già chi lo ha fatto… con risultati non proprio esaltanti. Il mio desiderio era solo richiamare l’attenzione su di un modo di accostarsi alla Bibbia che può portare addirittura a considerare il testo sacro immorale e blasfemo se non è letto nella prospettiva che ha guidato chi ha raccolto e conservato testi tanto eterogenei ma convergenti su punti fondamentali per la nostra fede. L’affermazione che Dio è misericordioso è uno di  questi. Se non si ha questa avvertenza avrebbe ragione Darwin che di fronte alla figlioletta Annie morta in tenera età avrebbe dichiarato: “No, un Dio onnipotente non può fare questo” (Corriere della sera 21 settembre 2015, citato da Anna Meldolesi).

Penso che la strada giusta per affrontare non solo il tema proposto per l’anno giubilare ma ogni lettura seria della Bibbia, sia accettarla per quello che è nella sua totalità di scritti in ebraico e in greco. Infatti certi principi di fede comuni con l’ebraismo trovano la loro giustificazione completa nei testi che conosciamo solo nella lingua greca. Ad esempio, la fede di Rambam Maimonide nella risurrezione, che gli Ebrei cantavano avviandosi alle camere a gas “Io credo con fede completa che ci sarà la risurrezione dalla morte nel tempo in cui lo vorrà il Creatore”, non risulta essere insegnata in modo esplicito nei testi ebraici, tant’è vero che al tempo di Gesù i Sadducei rifiutavano questa dottrina, affermata con certezza nei libri dei Maccabei (2 Maccabei 7,9.14.23.29) e nel Nuovo Testamento.

Speriamo che l’impegno di papa Francesco nel liberare la chiesa di Roma dalle incrostazioni accumulate nei secoli precedenti riesca anche a restituire alla Bibbia il posto che le compete. Ciò non si ottiene portando la Bibbia in processione o collocandola in evidenza sul leggio. Sono soltanto dei simboli e in quanto tali non possono stare da soli. L’etimologia della parola dice che “simbolo” significa “mettere insieme” (syn + ballo) cioè il posto fisico centrale riservato al libro deve diventare il posto centrale che l’insegnamento espresso dal libro deve occupare nella vita.

Come abbiamo visto nei pochi esempi presentati, per ottenere questo risultato si deve partire dalla convinzione che la Bibbia è fondamentale per conoscere la nostra fede; da questo nasce il desiderio di conoscere che cosa dice veramente; segue l’impegno a leggerla e rileggerla senza la preoccupazione di arrivare alla fine del brano per vedere cosa viene dopo; cercare l’aiuto di chi ha già fatto il percorso seriamente; accettare le sfide che l’insegnamento ci dà e impegnarsi a trasformarlo in comportamenti concreti e in scelte di vita. Sembra complicato, ma in realtà lo è soltanto quando non si è convinti del punto di partenza. Le difficoltà successive dipenderanno poi soltanto (!!!) dalla fatica richiesta per essere coerenti.

Ritornando al tema dell’anno giubilare penso di poter sintetizzare così quanto abbiamo scoperto: per la Bibbia la misericordia è un attributo della natura di Dio che si manifesta in tanti modi diversi; Dio è misericordioso sempre anche quando l’uomo non se ne rende conto, anche quando lo rifiuta; l’uomo è invitato ad imitare Dio costruendo una società basata su rapporti di misericordia. Se l’anno giubilare non porta questi risultati non servirà a niente, sarà soltanto un flop in più che si aggiunge ai tanti di cui abbiamo disseminato la nostra storia.

Però resterà immutata la misericordia di Dio. Deo gratias!

 

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