UNA
MISERICORDIA DAI MILLE VOLTI (3)
Misericordia e Shoah? Ani
maamin…
Nel Salmo 136, come abbiamo visto, la misericordia di Dio deve
essere considerata “da un certo punto di vista”, nel caso specifico, dal punto
di vista di Israele. Per gli Egiziani, gli Amorrei, gli abitanti di Basan la
cosa diventa problematica perché si tratta di nemici del popolo che Dio vuole
liberare e che si oppongono con la violenza a questo progetto. I ricordi di
quei fatti sottolineano con dovizia di particolari a volte contrastanti,
l’ostinazione del faraone che rifiuta di acconsentire alle richieste di Mosè.
Nel loro insieme i racconti forniscono una giustificazione plausibile all’uso
della violenza da parte di Dio.
Non si trovava sempre un angelo paziente e buono che addormentasse
i carcerieri per liberare senza violenza i suoi protetti, come accadrà in tempi
successivi a Pietro che non voleva credere ai suoi occhi tanto era impensabile
una uscita dal carcere così soft (Atti 12,6-11).
Ma con la Shoah è il popolo protetto da Dio ad essere colpito dalla
piaga dello sterminio sistematico condotto con metodi scientifici. Israele aveva
già sperimentato più volte nella sua storia la durezza dei castighi mandati dal
cielo. I profeti erano riusciti a trovare argomenti che avevano aiutato i loro
contemporanei a metabolizzare le tragedie e a trovare motivi di speranza in un
futuro migliore. Solo una fede a tutta prova aveva saputo coniugare la
misericordia divina con una severità confinante con la crudeltà.
E a metà dell’ultimo secolo di un millennio che sentivano estraneo,
gli Ebrei hanno risposto al pazzo criminale che voleva eliminarli per sempre
dalla faccia della terra, con la fede di Maimonide cantata sommessamente
varcando la soglia di quei cancelli che promettevano una libertà raggiunta solo
uscendo come fumo dai camini dei forni crematori.
Ani maamin… Io credo, io ripeto il mio Amen di fronte al mistero
incomprensibile di un Dio che mi ama anche se ha permesso che fossi ridotto
come “un verme, non uomo, infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo”
(Salmo 22,7).
Le stesse parole erano state dette da un altro Ebreo che prima di
morire inchiodato su una croce, si era sentito abbandonato proprio da quel Dio
che aveva insegnato a considerare come un padre.
Ani maamin… Io credo con fede completa che il Creatore, benedetto sia il Suo
Nome, è il Creatore e la Guida di ogni essere creato, e che Egli soltanto ha
fatto, fa e farà ogni cosa.
Ani maamin…Io credo con fede completa che il Creatore… è Uno e Unico, che non
esiste altra Unità come Lui, e che Egli solo è il nostro Dio, lo è stato e lo
sarà.
Ani maamin…Io credo con fede completa che il Creatore… ricompensa coloro che
osservano i Suoi precetti e punisce coloro che li trasgrediscono.
Ani maamin…Io credo con fede completa nell'avvento del Messia e, sebbene
possa tardare, aspetterò ogni giorno la sua venuta.
Ani maamin…Io credo con fede completa che ci sarà la risurrezione dalla morte
nel tempo in cui lo vorrà il Creatore, benedetto sia il Suo Nome ed in eterno
esaltato il Suo ricordo.
Tra i mille volti con cui si presenta la misericordia del Dio della
Bibbia questo è il più incomprensibile. Vorremmo cancellarlo da quelle pagine,
vorremmo eliminarlo dalla nostra vita. Lo vorrebbe anche Dio, come aveva capito
Geremia quando scriveva “Come vorrei considerarti tra i miei figli… Io
pensavo: Voi mi direte: Padre mio, e non tralascerete di seguirmi” (3,19).
È questa l’unica possibilità che ci è offerta per evitare il
ripetersi delle tragedie del passato che continuano ancora a colpire l’umanità.
Non basta ripetere stancamente le parole di Gesù “Venga il tuo regno. Sia
fatta la tua volontà” nella forma impersonale con cui ci sono state
tramandate, aspettando che qualcuno imprecisato costruisca il regno e faccia la
volontà di Dio. Bisogna arrivare a coniugare quei verbi alla prima persona
singolare e plurale “Voglio/vogliamo costruire il tuo regno. Voglio/vogliamo
fare la tua volontà”. La Bibbia ci dice come fare, ci presenta un progetto
e ci dice che abbiamo a disposizione tutti i materiali necessari per
realizzarlo, ci promette anche l’assistenza continua del progettista. Ma tocca
a noi organizzare i lavori ed eseguirli. E questo non è facile e richiede
impegno e fatica. Sarebbe meglio che intervenisse Dio, come ha già fatto quando
ci ha liberati dall’Egitto, stando a quanto ci hanno raccontato i nostri padri,
siamo tentati di dire.
Così pensavano anche gli esuli ebrei nei momenti difficili della
ricostruzione dopo la fine dell’esilio a Babilonia e invocavano il Signore con
parole accorate: “Rinnova i segni e compi altri prodigi, glorifica la tua
mano e il tuo braccio destro” (Siracide 36,5). È lo stesso
atteggiamento che sembra bloccare anche i cristiani nella costruzione della
Chiesa. In realtà ne abbiamo costruite molte, forse anche troppe, tant’è vero
che ne abbiamo trasformato un certo numero in magazzini, sale di spettacolo,
aule di tribunale, palestre e discoteche o le abbiamo abbandonate all’incuria.
Continuiamo a erigere cattedrali sfarzose in mezzo a baraccopoli abitate da
miserabili, conserviamo nei musei diocesani i “tesori” della chiesa ereditati
dai secoli passati, mostriamo con orgoglio le opere d’arte commissionate da
mecenati devoti, celebriamo liturgie solenni sfoggiando costumi impossibili
ereditati da epoche e culture lontane da noi, organizziamo incontri con milioni
di partecipanti che si distinguono dagli omologhi laici solo per l’assenza di
ballerine svestite.
Nelle nostre cerimonie ci siamo liberati delle parrucche incipriate
lasciandole ai lord del Parlamento di Londra, ma abbiamo conservato fino a poco
tempo fa la coda ai porporati (… e che dolore quando l’hanno tagliata! commentava
allora un alto prelato). Abbiamo eliminato i flabelli ma non le divise per
distinguere i vari “gradi” della gerarchia con colori e fogge diversi. Si fosse
almeno sentita la necessità di suggerire durante il rito della vestizione delle
“insegne” la recita delle belle parole attribuite alla regina Ester: “Tu sai
che mi trovo nella necessità, che detesto l’emblema della mia fastosa posizione
che cinge il mio capo nei giorni in cui devo fare comparsa; lo detesto come un
panno immondo” (Ester 4,17v). Certamente, il contesto è diverso e si
è preferito pensare alla descrizione entusiastica fatta dal Siracide quando
presenta il sommo sacerdote Simone paragonato alle cose più belle e preziose “quando
indossava i paramenti solenni, quando si rivestiva con gli ornamenti più belli,
salendo i gradini del santo altare dei sacrifici, riempiva di gloria l’intero
santuario” (Siracide 50,11).
Eppure Gesù era stato molto chiaro sul valore di segni analoghi e
di titoli onorifici in voga tra i notabili del suo tempo quando diceva: “Tutte
le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro
filatteri e allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi
nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare ‘rabbi’
dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare ‘rabbi’, perché uno solo è il vostro
maestro e voi siete tutti fratelli” (Matteo 23,5-8; Marco
12,38-40; Luca 20,45,47).
Abbiamo conservato molte di queste strutture laiche e antiquate
fino a sacralizzare il colore delle scarpe del papa. Ma non siamo riusciti a costruire
la vera Chiesa pensata da Gesù secondo altre categorie e ci siamo persi dietro
a dispute per il potere scopiazzando o inventando titoli onorifici, ci siamo
divisi discutendo sul sesso degli angeli, siamo riusciti a frantumare quella
che doveva essere l’unico Corpo di Cristo.
Di fronte a questo spettacolo, che potrà anche sembrare descritto
con toni caricaturali, crediamo che nonostante tutto Dio ci viene incontro con
la sua misericordia ed è pronto ad accoglierci. A patto che la smettiamo di
correre dietro ai fantasmi sbandierati da una società fallimentare che però
continua a lanciare i suoi richiami ingannevoli. Ma il Dio misericordioso
presentatoci dalla Bibbia ci dice anche che tocca a noi fare il primo passo.
Lui ci verrà incontro, non ci chiederà nemmeno di fare una pubblica abiura.
L’unica condizione è che cambiamo davvero il nostro modo di vivere e che
facciamo nostro il suo modo di vedere il mondo. Non ci chiede poco, è vero, ma è
l’unico modo per essere felici.
La Bolla di indizione dell’anno giubilare
Misericordiae vultus è il titolo della Bolla e il volto è quello di Gesù.
Effettivamente “quel volto” sintetizza tutte le sfumature che abbiamo rilevato
leggendo i testi biblici e anche quelle che non sono emerse in una ricerca
rapida. Il nostro sforzo dovrebbe mirare a scoprire attraverso le espressioni
del volto del Maestro le sue reazioni ai comportamenti degli apostoli, delle
folle, dei farisei, dei sadducei, dell’adultera, della vedova che accompagna il
feretro del figlio. Dovremmo spiegare le sue lacrime di fronte alla tomba
dell’amico Lazzaro, il suo sorriso quando abbraccia i bambini, la sua
indignazione quando denuncia l’arrivismo meschino dei due figli di Zebedeo,
l’espressione disperata quando si sente abbandonato da Dio.
In tutte queste situazioni Gesù manifesta la misericordia del Padre
che non si esaurisce nelle raffigurazioni statiche dei singoli artisti, ma che
dovrebbe essere ricostruita unendo le mille immagini che la rappresentano. È una ricerca troppo impegnativa per essere presentata in un
documento ufficiale o anche solo in un articolo necessariamente limitato.
Tuttavia è possibile offrire delle tracce per approfondire personalmente la
ricchezza di insegnamenti presenti nelle pagine bibliche.
I testi della Bibbia che ho cercato di leggere nel loro contesto
letterario sono citati anche nella Bolla di indizione dell’anno giubilare,
insieme a tanti altri dello stesso tenore. Il documento del papa sembra sensibile
alle difficoltà di mettere insieme le due facce della medaglia anche se
continua a sottolineare gli aspetti gradevoli e incoraggianti legati alla
qualità di Dio. In questo la Bolla segue fedelmente la tradizione,
rappresentata dall’Enciclica Dives in misericordia non per niente citata
diverse volte e proprio in passi che aprono la strada a capire perché Dio deve
essere misericordioso. È il comportamento negativo dell’uomo che dà a Dio
l’occasione di manifestare il lato positivo. Potremmo parafrasare un noto testo
della liturgia: “O felix culpa” dell’umanità che offre a Dio l’occasione
di farsi conoscere per quello che è: un Padre che ama tutti i suoi figli anche
se in modo a volte incomprensibile.
Senza i “miseri” non esiste misericordia. L’unico ostacolo alla
misericordia è il non riconoscere di averne bisogno. Per usare un termine
“tecnico” è la “hybris” dei testi greci che possiamo interpretare come
“arroganza violenta, tracotanza, autosufficienza insolente, disprezzo degli
altri (compreso Dio), godimento sadico nel far soffrire chi è ritenuto nemico”
che si oppone alla misericordia. Il riconoscimento della propria “miseria” (che
non ha bisogno di grandi segni esteriori, flagellazioni, processioni di
incappucciati, digiuni ostentati alla TV o sui giornali…) è la condizione per
un incontro con Dio nella verità. Come abbiamo visto non è soltanto
l’esperienza a dirlo ma lo afferma la Bibbia stessa in testi espliciti e nel
contesto generale. Queste osservazioni dovrebbero permettere di affrontare il
problema del male con una certa serenità che non va confusa con l’indifferenza
né con l’approvazione o la connivenza.
In questa prospettiva mi pare che la Bolla possa essere divisa in
due parti. La prima (nn. 1-9) presenta un repertorio di testi biblici sul tema
della misericordia, commentati secondo i criteri interpretativi tradizionali.
La seconda parte (nn. 10-25) tenta un approccio alle difficoltà che sorgono da
una lettura che ho chiamato “tematica” o “selettiva” in quanto mette in luce
soltanto un aspetto dell’insegnamento dato dalla Bibbia. La svolta è evidente
soprattutto nel n. 10 dove compare il tema della “giustizia” che sembra
contrapporsi alla misericordia. Il tema è ripreso ampiamente nei nn. 19-21 fino
a dichiarare in modo netto: “ Chi sbaglia dovrà scontare la pena”, con la
precisazione doverosa “che questo non è il fine, ma l’inizio della conversione,
perché si sperimenta la tenerezza del perdono”.
* * *
Per concludere un discorso che meriterebbe uno sviluppo molto più
ampio, ci tengo a chiarire che non intendo affatto dare dei suggerimenti al
papa. C’è già chi lo ha fatto… con risultati non proprio esaltanti. Il mio
desiderio era solo richiamare l’attenzione su di un modo di accostarsi alla
Bibbia che può portare addirittura a considerare il testo sacro immorale e
blasfemo se non è letto nella prospettiva che ha guidato chi ha raccolto e
conservato testi tanto eterogenei ma convergenti su punti fondamentali per la
nostra fede. L’affermazione che Dio è misericordioso è uno di questi. Se non si ha questa avvertenza
avrebbe ragione Darwin che di fronte alla figlioletta Annie morta in tenera età
avrebbe dichiarato: “No, un Dio onnipotente non può fare questo” (Corriere
della sera 21 settembre 2015, citato da Anna Meldolesi).
Penso che la strada giusta per affrontare non solo il tema proposto
per l’anno giubilare ma ogni lettura seria della Bibbia, sia accettarla per
quello che è nella sua totalità di scritti in ebraico e in greco. Infatti certi
principi di fede comuni con l’ebraismo trovano la loro giustificazione completa
nei testi che conosciamo solo nella lingua greca. Ad esempio, la fede di Rambam
Maimonide nella risurrezione, che gli Ebrei cantavano avviandosi alle camere a
gas “Io credo con fede completa che ci sarà la risurrezione dalla morte nel
tempo in cui lo vorrà il Creatore”, non risulta essere insegnata in modo
esplicito nei testi ebraici, tant’è vero che al tempo di Gesù i Sadducei
rifiutavano questa dottrina, affermata con certezza nei libri dei Maccabei (2 Maccabei
7,9.14.23.29) e nel Nuovo Testamento.
Speriamo che l’impegno di papa Francesco nel liberare la chiesa di
Roma dalle incrostazioni accumulate nei secoli precedenti riesca anche a
restituire alla Bibbia il posto che le compete. Ciò non si ottiene portando la
Bibbia in processione o collocandola in evidenza sul leggio. Sono soltanto dei
simboli e in quanto tali non possono stare da soli. L’etimologia della parola
dice che “simbolo” significa “mettere insieme” (syn + ballo) cioè il posto
fisico centrale riservato al libro deve diventare il posto centrale che l’insegnamento
espresso dal libro deve occupare nella vita.
Come abbiamo visto nei pochi esempi presentati, per ottenere questo
risultato si deve partire dalla convinzione che la Bibbia è fondamentale per
conoscere la nostra fede; da questo nasce il desiderio di conoscere che cosa
dice veramente; segue l’impegno a leggerla e rileggerla senza la preoccupazione
di arrivare alla fine del brano per vedere cosa viene dopo; cercare l’aiuto di
chi ha già fatto il percorso seriamente; accettare le sfide che l’insegnamento
ci dà e impegnarsi a trasformarlo in comportamenti concreti e in scelte di
vita. Sembra complicato, ma in realtà lo è soltanto quando non si è convinti
del punto di partenza. Le difficoltà successive dipenderanno poi soltanto (!!!)
dalla fatica richiesta per essere coerenti.
Ritornando al tema dell’anno giubilare penso di poter sintetizzare
così quanto abbiamo scoperto: per la Bibbia la misericordia è un attributo
della natura di Dio che si manifesta in tanti modi diversi; Dio è
misericordioso sempre anche quando l’uomo non se ne rende conto, anche quando
lo rifiuta; l’uomo è invitato ad imitare Dio costruendo una società basata su
rapporti di misericordia. Se l’anno giubilare non porta questi risultati non
servirà a niente, sarà soltanto un flop in più che si aggiunge ai tanti di cui
abbiamo disseminato la nostra storia.
Però resterà immutata la misericordia di Dio. Deo gratias!
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