UNA MISERICORDIA DAI MILLE VOLTI (2)
Il Salmo 136
Dove trionfa la misericordia è
nel Salmo 136 che proclama dopo ogni intervento di Dio per ventisei volte “eterna
è la sua misericordia”. È veramente la celebrazione trionfale di questa
grande qualità che contraddistingue il Dio di Israele. Ma facciamo un piccolo
sforzo, mettiamoci nei panni degli egiziani che sono oggetto dell’intervento di
Dio dal v. 10 al v. 15. Con che animo possiamo ripetere che Dio è
misericordioso quando si dice che “Percosse l‘Egitto nei suoi primogeniti…
travolse il Faraone e il suo esercito nel Mar Rosso”. Se ci immedesimiamo
con i sudditi di “Seon re degli Amorrei” o con quelli di “Og re di
Basan” come facciamo a proclamare la misericordia di Dio quando si dice che
li ha uccisi senza pietà? Evidentemente la “misericordia” in questione non
corrisponde all’idea che noi ce ne siamo fatta ma va intesa in altro modo. La
struttura letteraria del salmo ci aiuta a comprenderne il significato.
La ripetizione della stessa frase
come un ritornello fa pensare a quanto facciamo anche noi nella liturgia
eucaristica con il Salmo responsoriale. Un lettore proclama un versetto e tutti
i presenti rispondono sempre allo stesso modo. Abbiamo così una specie di
dialogo corale nel quale un solista o un gruppo ristretto di cantori racconta
una storia o espone un pensiero articolato in più punti e i presenti
partecipano ripetendo una frase che sintetizza il pensiero dominante. Si tratta
quindi di una sottolineatura che dimostra l’interesse dell’assemblea per
qualcosa che ognuno dei presenti sente rivolta a sé.
Nel Salmo 136 si racconta una
storia particolare riguardante un gruppo di persone che ricordano un momento
importante della loro vita. È un’esperienza rivissuta e narrata “dal loro punto
di vista” che li porta ad interpretare i fatti in funzione dei risultati
ottenuti. Nel caso specifico il protagonista è il popolo ebraico e gli altri
attori, come in ogni rappresentazione che si rispetti, ricoprono ruoli diversi
soprattutto quello di antagonisti.
È interessante notare che questa
vicenda particolare è inserita in una cornice universale che si apre con le
qualità di Dio in se stesso e la creazione del mondo (vv. 1-9) per chiudersi con
il riferimento “ad ogni vivente” e al “Dio del cielo” (vv.
25-26).
Non so se sono riuscito a mettere
in guardia dal cadere nella trappola di una misericordia dichiarata universale
perché ripetuta decine di volte. La verità non nasce dal numero dei consensi. Il
salmo in questione, per come è costruito afferma che Dio è stato ed è
misericordioso, ma “verso Israele” (vv. 11.21-24). Dire che lo sia stato anche
verso l’Egitto, verso Seon e verso Og non è così semplice come vorremmo e
richiede un “supplemento di indagine”.
Questa osservazione ci porta a
riflettere sui racconti dei fatti ricordati nel salmo e a chiederci se non
siano stati anch’essi redatti “da un certo punto di vista”. Il che non vuol
dire che non corrispondano alla realtà ma che non la presentano tutta, cosa del
resto umanamente impossibile. La stessa varietà dei racconti di quanto avvenuto
in Egitto con la conclusione ricordata nel salmo, dimostra che sono basati su
ricordi differenti raccolti senza le nostre preoccupazioni che definiamo
“scientifiche” perché fondate su documentazioni scritte. Pretendere l’uso dei
nostri metodi di ricerca da parte di uomini vissuti migliaia di anni fa in
condizioni tanto diverse dalle nostre è veramente antiscientifico e
antistorico. E meraviglia che si continui a dare giudizi negativi sulla Bibbia
accusando chi l’ha scritta di falsità.
Il discorso ci porta ancora una
volta lontano dal nostro tema specifico e dimostra l’intreccio profondo tra
aspetti diversi reso ancor più complicato dai pregiudizi che abbiamo, costruiti
anche con la buona intenzione di rendere più facile la lettura della Bibbia.
La parabola del Padre
misericordioso
In ambito cristiano il testo di
Luca 15,11-32 è il punto di riferimento scontato per presentare la misericordia
di Dio. In passato la parabola era indicata con un titolo che metteva in primo
piano il “figlio prodigo” cioè dissipatore dei beni di famiglia; da un po’ di
tempo si preferisce focalizzare l’attenzione sulla figura del padre. Il
cambiamento evidenzia lo spostamento dell’interesse da parte dell’uomo moderno
verso un particolare di cui si sente la mancanza nella vita quotidiana sempre
più omologata con quella del figlio dissoluto. Però ho l’impressione che in
fondo si cerchi una giustificazione delle proprie scelte, mascherata da
comprensione tollerante più che la misericordia autentica come è presentata
nella parabola. Questa ambiguità è favorita da una lettura buonista che è del
tutto estranea all’insegnamento di Gesù tutt’altro che accomodante.
Non mi fermo sul racconto, troppo
noto, per passare subito a qualche considerazione. Il comportamento del padre
di fronte alla richiesta del figlio è semplicemente sconcertante,
incomprensibile, contrario al ritratto di padre presentato dalla Bibbia stessa
come modello per comprendere l’agire di Dio nei confronti del suo popolo. Basta
leggere come si comporta un padre ideale secondo il libro dei Proverbi
(3,11-12) e secondo l’autore della Lettera agli Ebrei che trova in quel testo
la spiegazione delle dure prove che devono affrontare i cristiani (Ebrei
12,1-13), fino ad arrivare a dire che la tolleranza verso le scelte sbagliate
dei figli significa considerarli illegittimi, cioè degli estranei.
Il padre della parabola si
comporta proprio così. Alla richiesta del figlio non reagisce, non cerca
nemmeno di farlo riflettere ma semplicemente si adegua, accetta senza batter
ciglio una scelta sbagliata. Alla luce di quanto si dirà in seguito, dobbiamo
riconoscere che anche questo atteggiamento del padre è dovuto alla sua
misericordia che però si manifesta in un modo che potrebbe essere interpretato
come indifferenza o addirittura come connivenza.
Un altro particolare del racconto
merita attenzione. Il figlio decide di ritornare non dal padre ma “in
casa del padre”, cioè non è motivato dall’amore ma dalla necessità, dalla
fame (vv. 10-11) e rinuncia ai privilegi spettanti ai figli per essere trattato
come un estraneo. Sorprende il fatto che anche l’altro figlio è rimasto in casa
come un estraneo (“ti servo da tanti anni… non ho mai trasgredito un tuo
comando”) e accusa il padre di non avergli mai dato “un capretto per far
festa con gli amici” cioè con degli estranei. Figli senza amore, mossi solo
da interessi materiali, che si ignorano, non si sopportano, si accusano, si
rinfacciano preferenze attribuite ad un padre insensibile: e invece è l’unico
che agisce per amore.
Si direbbe una famiglia mal combinata, fallimentare dove
l’unico a fare bella figura è il padre che nonostante l’atteggiamento dei figli
continua ad amarli accontentandosi di sentirli vicini. Mi pare che la parabola
possa essere vista come la foto fedele della storia di tutti gli uomini che Dio
continua a considerare suoi figli e ad amarli nonostante tutti i loro
tradimenti.
I commentatori, sempre per
evidenziare la misericordia del padre, sottolineano che quando vede il figlio
ancora lontano gli corre incontro, non aspetta le sue scuse ma subito manifesta
la gioia per il ritorno e organizza la festa di accoglienza. Ma nessuno si
chiede perché il padre non si è mosso prima, non è andato a cercarlo nei
bordelli, nelle porcilaie, ultimo rifugio del figlio snaturato. Eppure queste
notizie erano ben note in famiglia se il fratello maggiore le porta come
giustificazione del suo rifiuto di partecipare alla festa. No, il padre
aspetta. Deve essere il figlio a fare il primo passo, a decidere di cambiare
vita dopo aver sperimentato il fallimento delle sue illusioni e aver toccato il
fondo del degrado fisico e morale.
Avrà un significato tutto questo
nella logica della parabola? Anche perché è la terza delle parabole sul tema
della misericordia e le prime due sembrano dare particolare importanza proprio
alla ricerca affannosa di quanto si era perduto, sia una pecora o una moneta per
la quale si mette a soqquadro tutta la casa.
Le tre parabole sono simili ma
con differenze da non trascurare. Nelle prime due sono il pastore e la donna
che perdono qualcosa, cioè si presenta un dato di fatto, una situazione
oggettiva che richiede l’intervento dell’interessato per ricuperare quello che ritiene
importante. Non si evidenzia una scelta consapevole da parte della pecora né
tanto meno lo si fa nei confronti della moneta. Si dice solo che si sono
perdute.
Nella terza la situazione di partenza è ben
diversa: è il figlio che volontariamente si allontana da casa. Il disinteresse
del padre è solo apparente perché in realtà è dettato, paradossalmente
dall’amore che si manifesta nel rispetto totale della libertà del figlio e nel
riconoscimento della sua dignità. Se il figlio ha deciso liberamente di
abbandonare la casa dev’essere lui a decidere di ritornarvi. Il padre sembra
impotente, tutta la responsabilità ricade sulla scelta del figlio.
Ci troviamo di fronte ad un
messaggio inquietante che non concede sconti o scappatoie. L’uomo è arbitro del
proprio destino, deve decidere continuamente tra “la vita e la morte, la
benedizione e la maledizione” (Deuteronomio 30,19). Ma deve anche
sapere a che cosa va incontro. E qui interviene la misericordia di Dio che
informa, spiega, dà suggerimenti, propone e impone i comportamenti che portano
l’uomo a scegliere la vita e la benedizione. Tutta la Bibbia nel suo insieme
può essere considerata il grande “Manuale di istruzioni” per il corretto
funzionamento dell’uomo, consegnato ad un popolo perché lo faccia conoscere a
tutti.
Misericordia e coerenza
Tra gli attributi di Dio
descritti dalla Bibbia ce n’è uno che non viene messo in risalto come
meriterebbe sia dagli studiosi che dai predicatori. Lo stesso Catechismo non lo
ricorda se non in modo indiretto sotto l’etichetta della “fedeltà”, termine che
esprime lo stesso concetto di “coerenza” ma che suona meglio in un contesto
religioso. Dire che Dio “è fedele” viene associato automaticamente alle
promesse di bene, di perdono, di grazia, tutte cose belle, altamente positive e
incoraggianti. Affermare che Dio è coerente con se stesso è un’espressione
sentita come troppo laica e difatti non ricorre mai nemmeno nei testi biblici.
Ma se manca il termine
linguistico non manca la descrizione di un Dio “fedele alla sua parola” anche quando
si parla di avvenimenti tragici preannunciati dai profeti come castighi per i
peccati del popolo. Il testo di Geremia 2,13 non usa il termine “coerente” per
affermare che Dio rimane sempre uguale a se stesso ma ricorre ad un’immagine molto
più efficace della parola: la sorgente d’acqua. Per sua natura è fonte di vita,
è a disposizione di chiunque, sempre uguale (coerente). Non si disperde in
mille rigagnoli alla ricerca degli assetati. Sono essi che devono avvicinarsi
alla sorgente se non vogliono morire di sete. L’immagine apre la strada a tante
riflessioni sulla necessità di scelte responsabili e illuminate da parte
dell’uomo, sulla coerenza nell’accettarne le conseguenze, sull’illusione
dell’autosufficienza, sulla fragilità delle costruzioni umane che escludono
Dio. E si potrebbe continuare.
Nel testo di Matteo 18,21-35 non
si usa il termine fedeltà né tanto meno coerenza. Piuttosto si parla in modo
esplicito di “debiti condonati”, di pietà e di perdono sullo sfondo di una
giustizia fiscale violata ma superata per la bontà del padrone. Emerge anche il
tema della reciprocità. Il tutto è presentato sotto l’etichetta della
misericordia che si manifesta attraverso il perdono. Come si vede anche in
questo caso ci troviamo di fronte ad un intreccio di temi che formano un
disegno ben preciso che deve essere visto nell’insieme. Partendo da questa
premessa di metodo, il comportamento del padrone rivela certamente la sua
misericordia nei confronti del primo servo quando gli condona il debito, ma
afferma anche la sua severità nel giudicare e punire secondo giustizia fiscale
lo stesso servo già perdonato.
Il testo non si accontenta di
narrare l’accaduto ma aggiunge anche un particolare emotivo dicendo che il
padrone condanna il colpevole perché era “sdegnato” (v. 34). In questo caso la
punizione è frutto di un intervento voluto dal padrone e la sentenza è
motivata, a differenza di quanto abbiamo rilevato nell’immagine della sorgente
in Geremia dove manca il verdetto di condanna. La parabola si conclude con
l’esortazione ad imitare il comportamento del padrone (v. 35) che è presentato
con il volto della misericordia ma anche con quello della severità: è severo
perché è coerente. Sarà brutale, ma l’insegnamento della parabola è questo.
Ma cosa succede se nel ricorrere a
questa parabola per esortare i cristiani alla misericordia si omette il v. 34?
A parte il fatto che la frase risulterebbe sgrammaticata, la cosa peggiore è
che il messaggio che si riceve si rivela ingannevole perché tralascia un
elemento essenziale del racconto: la punizione severa di chi non è stato
misericordioso dopo che lui stesso è stato oggetto di misericordia. È
fuorviante citare a questo punto l’esortazione di Gesù riportata
da Luca “Siate misericordiosi come il Padre vostro celeste” (Luca
6,36) perché è collocata in un contesto diverso da quello della parabola di
Matteo e segue un’altra logica che può anche apparire contraria in quanto si interessa
del perdono da dare ai nemici. Più o meno su questa stessa linea invece si può
leggere la promessa “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia”
(Matteo 5,7) in quanto parla della ricompensa riservata ai
misericordiosi. In breve il vangelo ci
invita ad imitare l’agire di Dio nelle diverse forme con cui si presenta, senza
cedere alle interpretazioni di comodo dettate dalla moda del momento. Andare
contro corrente è frutto della coerenza con le convinzioni che dovremmo avere
se prendiamo sul serio i messaggi del vangelo.
I pochi esempi di lettura dei
testi biblici nel loro contesto letterario hanno dimostrato, penso, la
ricchezza e la positività dell’insegnamento che ci trasmettono. Invece di
indebolire la fiducia nella Bibbia ci hanno fatto capire che le esperienze di
vita guidate dalla fede di uomini vissuti tanto tempo fa portate come esempio
da imitare, sono valide anche per noi. A condizione di prenderle sul serio per
quello che dicono senza edulcorarle per renderle gradite ai nostri palati.
Misericordia e giustizia
Soprattutto il testo di Matteo
(18,21-35) che abbiamo visto pone in modo esplicito il problema che nasce
dall’accostamento della misericordia, alla giustizia che ho definito fiscale.
Anche in questo caso bisognerebbe chiarire il senso di giustizia nell’uso
biblico che non copre la stessa area semantica presente nelle nostre lingue ma
assume un valore teologico accentuato: giustizia è compiere la volontà di Dio.
Nel racconto di Matteo si tratta della restituzione di denaro e quindi siamo in
ambito economico-amministrativo guidato dalle leggi di mercato. Inoltre il
denaro in gioco è proprietà del rispettivo padrone che può farne quello che
vuole, può anche rinunciarvi benché la legge sia dalla sua parte. Con questo
non si dice che l’uso del denaro non debba avere nessun rapporto con la volontà
divina, ma solo che il creditore può disporre delle sue proprietà sia
rinunciandovi sia donandole a chi vuole.
Sono questi i limiti entro i
quali va inquadrato l’insegnamento della parabola che di per sé non può essere
esteso alla giustizia riguardante, ad esempio, crimini contro la vita
individuale o collettiva che non dovrebbero mai andare in prescrizione. Però è
innegabile che sorgano domande a questo riguardo. La misericordia cancella anche
la pena prevista dalla legge contro i delinquenti, contro gli assassini, contro
gli stupratori, contro gli sfruttatori degli operai, contro i ricchi sfondati
che lasciano crepare davanti alle loro porte i poveri Lazzari di ogni tempo?
Gesù ha parlato anche di questo e la soluzione prospettata è tutt’altro che
accomodante. In altre parole forse provocatorie, usare misericordia significa
proclamare un’amnistia generale? Cantare “Chi ha dato ha dato; chi ha avuto ha
avuto”? Lanciare il grido finale dei nostri giochi infantili “Liberi tutti”?
Sarebbe questo l’insegnamento della Bibbia che noi proclamiamo essere “Parola
di Dio”?
È vero che Gesù ha perdonato “Zaccheo,
capo dei pubblicani e ricco” (Luca 19,2-10), il quale però ha smesso
di taglieggiare la gente decidendo di dare ai poveri la metà delle sue
ricchezze accumulate rubando e di restituire “quattro volte tanto”
quanto aveva estorto. È altrettanto vero che Gesù perdona l’adultera ma le
impone di non continuare a mettere le corna al marito (Giovanni 8,11). Infine,
Paolo di Tarso dopo aver sperimentato personalmente la misericordia di Dio manifestata
in modo violento, smette per sempre di imprigionare i cristiani diventando lui
stesso un convinto divulgatore della nuova fede (Filippesi 3,6ss.) fino
a testimoniarla subendo il martirio. Il perdono è condizionato dalla decisione
sincera di abbandonare una vita contraria alla volontà di Dio, qualunque siano
le motivazioni che portano alla conversione.
La misericordia divina non è
riservata soltanto a chi è mosso dall’amore; sarebbero troppo rari i casi in
cui potrebbe manifestarsi. Essa accetta anche la paura dei castighi,
l’interesse personale, la delusione per i fallimenti di una vita disordinata,
la stanchezza, le debolezze, addirittura le ricadute occasionali. Ma esclude quelle
programmate, l’ipocrisia che cerca non il perdono ma la complicità di Dio per
continuare a commettere il male. È la denuncia decisa pronunciata da Geremia
contro chi si illudeva di corrompere Dio con le offerte sperando che chiudesse
un occhio sui delitti che si commettevano (Geremia 7; 26). Dio fa di
tutto per essere misericordioso, continua ancora Geremia in un testo che vale
la pena di leggere: “Percorrete le vie di Gerusalemme, osservate bene e
informatevi, cercate nelle sue piazze se trovate un uomo, uno solo che agisca
giustamente e cerchi di mantenersi fedele (cioè coerente!) e io le
perdonerò, dice il Signore… Hanno indurito la faccia più di una rupe, non
vogliono convertirsi” (5,1.3c).
Si potrebbe continuare a lungo
citando testi che presentano la disponibilità di Dio al perdono ostacolato però
dall’ostinazione dell’uomo a compiere il male che si ritorce a suo danno. Si
potrebbe dire che tutta la Bibbia è una difesa appassionata di un Dio alla
ricerca dell’uomo che fa di tutto per sfuggire all’abbraccio di chi vuole solo
il suo bene. Sentiamo ancora Geremia che interpreta il desiderio segreto che
spinge il Dio di Israele a interessarsi del popolo che si è scelto: “Io
pensavo: Come vorrei considerarti tra i miei figli e darti una terra
invidiabile, un’eredità che sia l’ornamento più prezioso dei popoli! Io
pensavo: Voi mi direte: Padre mio, e non tralascerete di seguirmi” (3,19).
Però la realtà è molto diversa
dal progetto ideale attribuito a Dio. Anche se la causa deve essere addebitata
alla volontà dell’uomo, l’interpretazione che tutti i popoli antichi davano
delle catastrofi che li colpivano, scaricava sulla divinità la responsabilità
di quanto accadeva sia nel (poco…) bene che si riceveva sia nelle disgrazie. Il popolo di Israele condivideva queste idee
anche se le viveva in modo diverso, alla luce della propria fede che faceva
dipendere le condizioni di vita dall’osservanza degli impegni assunti con
l’alleanza.
(continua)
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