Il convegno di studi
organizzato dall’ABI a Venezia per il mese di settembre continua a richiamare
l’attenzione e le critiche del mondo ebraico. Il 22 marzo il quotidiano La Stampa ha pubblicato un lungo
articolo di Lisa Palmieri-Billig, rappresentante in Italia e presso la Santa
Sede
dell’AJC (American Jewish Committee),
nel quale si ripropongono le proteste dei rabbini italiani con altre
considerazioni sul tema del convegno. Molto spazio viene dato ai documenti
della Chiesa cattolica riguardanti i rapporti con l’Ebraismo a partire dal
Concilio Vaticano II. Le aperture auspicate dalle dichiarazioni ufficiali però
– secondo la giornalista – sarebbero spesso disattese nell’insegnamento dalla
catechesi ai bambini fino alle facoltà teologiche e nelle omelie, comprese
quelle di papa Francesco. Il convegno di Venezia rientrerebbe in questa linea e
le dichiarazioni di stima, amicizia e collaborazione con gli ebrei rilasciate
dal presidente dell’ABI al quotidiano Avvenire,
non sarebbero sufficienti per cancellare l’impressione che nulla sia cambiato
nei pregiudizi diffusi nei confronti del popolo ebraico.
L’articolo è duro anche
nel denunciare la poca “scientificità di metodo” nell’affrontare temi
prettamente biblici come la “gelosia” di Dio, l’elezione di Israele, l’universalismo,
la molteplicità di significati, lo stretto rapporto con la storia. La
conclusione può esprimere il contenuto e il tono di tutto l’articolo: “Forse la
cosa di cui c’è più bisogno oggi è di rispolverare la conoscenza della storia
ebraico-cristiana e di chiedere che seminaristi, studenti e professori
universitari diano una ripassata approfondita ai documenti rilevanti”.
Nel mio post precedente
mi ero limitato a spiegare i motivi che hanno costretto a modificare il titolo
del convegno senza entrare nel merito dei contenuti. Mi premeva soprattutto
evidenziare l’importanza delle parole e dell’uso che se ne fa. L’articolo de La Stampa mi offre l’opportunità di
riflettere su qualche argomento forse trascurato o sottovalutato, come
La molteplicità di
significati
Giustamente l’articolo
afferma che la religione degli ebrei si fonda sulle molteplici interpretazioni
date nel corso dei secoli alle parole della Bibbia ebraica. Evidentemente il
riferimento è alle diverse scuole rabbiniche, tanto differenti
nell’interpretare le parole quanto ostinatamente unite nel rispettare la loro
forma. Ma questo metodo è già presente nella stessa composizione della Bibbia
ed è dovuta in gran parte proprio alle caratteristiche della lingua ebraica,
relativamente povera di radici che possono assumere significati diversi a
seconda del contesto in cui sono inserite.
In uno dei post
precedenti avevo giocato con due radici ebraiche lkm e shlm, ma gli esempi
si potrebbero moltiplicare. Può sembrare un gioco enigmistico ma è il
fondamento del metodo che porta i rabbini a scoprire significati reconditi di
parole e frasi tutti ugualmente degni di rispetto. La diversità non deve essere
considerata causa di contrapposizione ma piuttosto come arricchimento di un
patrimonio comune che ognuno può accrescere con il suo contributo.
Come si intuisce, è un
metodo rischioso se porta a considerare la propria scoperta come unica verità
assoluta o, al contrario, se conduce al relativismo. Soltanto una visione
globale della realtà, che unifichi le mille facce dell’universo è in grado di
creare quel mondo ideale a cui la Bibbia dà il nome di “attesa messianica”.
Dispiace vedere come
questo principio elementare non sia stato seguito nella pratica da nessuna
religione, nemmeno – si deve riconoscere – dagli stessi ebrei che lo hanno
teorizzato e applicato alla loro esperienza di fede e, forse un po’ meno, alla loro
vita politica e sociale e meno ancora nei rapporti con altre religioni e popoli.
Non ci si deve meravigliare di queste incongruenze, fanno parte della vita
reale e rientrano nella lista dei desideri e dei buoni propositi.
Le “ambivalenze” della
Bibbia
Si sente spesso accusare
la Bibbia – ma si sottintende “Antico Testamento” – di essere piena di violenza
attribuita a ordini precisi dati da Dio. È infantile, ingenuo e
controproducente negare che ci siano pagine intere che descrivono, anche con un
certo compiacimento, episodi di stragi e massacri di intere popolazioni
eseguiti su comando di Dio. Ci sono, ma bisogna capire e spiegare il perché di
quei racconti e confrontarli con quelli analoghi di altri popoli. Si vedrà
facilmente che era un modo comune di narrare le imprese epiche dei propri
soldati e condottieri per esaltare la grandezza del popolo e del dio che lo
proteggeva.
La Bibbia non fa
eccezione ma, accanto a testi decisamente violenti ne propone altri che
esortano a cercare la pace e l’armonia non solo all’interno del popolo ebraico
ma anche nei rapporti con gli altri popoli. L’autore del Salmo 137 riempie di
sdegno il lettore moderno quando proclama “Beato
chi afferrerà” i bambini dei babilonesi “e li sbatterà contro la pietra” (Salmo 137,9). Però non possiamo ignorare l’esortazione che il
profeta Geremia rivolge ai Giudei deportati prigionieri a Babilonia: “Cercate il benessere del paese in cui vi ho
fatto deportare. Pregate il Signore per esso, perché dal suo benessere dipende
il vostro benessere” (Geremia
29,7).
L’invito di Geremia è
stato seguito dai deportati tanto fedelmente da trasformare l’odiata Babilonia
in una nuova Terra promessa dove per un millennio gli Ebrei hanno vissuto in
pace sviluppando la loro cultura e studiando la propria religione.
Il “Popolo eletto”
L’espressione dà fastidio a molti e viene
considerata la causa di una presunta superiorità sugli altri popoli che gli
Ebrei avrebbero nel loro DNA. Questa convinzione sarebbe evidenziata dai comportamenti
nella vita quotidiana dove l’ebreo ci tiene a distinguersi da tutti nel modo di
vestire, nel cibo, nella fedeltà a tradizioni incomprensibili nell’ambiente in
cui vive. Anche altri gruppi etnici sono riconoscibili per caratteristiche
simili ma la cosa sembra diventare un problema soprattutto quando si tratta di
israeliti. Come si spiega questa attenzione mirata ad un solo gruppo?
La risposta può venire
dalla nostra storia, ma affonda le radici nella Bibbia dove abbondano
prescrizioni molto rigide riguardanti l’abbigliamento, i cibi, i gesti da
compiere, i rapporti da evitare, i tempi da rispettare, le formule delle
preghiere. L’osservanza di tutte queste norme costituisce l’identikit di chi
appartiene al popolo che Dio si è scelto tra tutti i popoli.
Nel libro dell’Esodo
(19,5-6) è riportata l’affermazione attribuita a Dio: “Se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi
sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra. Voi
sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa”. È tutto spiegato: Dio si interessa di tutti i
popoli della terra ma vuole mettersi in contatto con loro attraverso un popolo
che sia disposto a fare da tramite, ad essere come un ponte che unisce
l’umanità a Dio. Universalismo e particolarismo non sono in contrasto ma
complementari. La scelta è fatta in funzione di una missione da compiere e ciò
richiede una forte identità, l’assunzione di responsabilità, la rinuncia a
comodi privilegi di cui altri possono godere.
Verso la fine dell’articolo
la Palmieri-Billig scrive: “Nella comprensione di se stessi, per gli ebrei
essere ‘scelti’ o ‘eletti’ implica l’obbligo e il dovere di essere da esempio,
per l’umanità intera”. Mi sembra che sia l’interpretazione corretta del testo
di Esodo 19 che ho citato e che trova conferma in tutti i racconti di vocazione
riguardanti i profeti: Dio li chiama per inviarli alla gente. Può apparire una
contraddizione se riassumiamo in una battuta: “Dio chiama il profeta per
mandarlo via”.
Vorrei concludere queste riflessioni con una
domanda che rivolgo prima di tutti ai cristiani e poi, con grande rispetto e
simpatia, anche ai fratelli Ebrei confidando di essere accolto grazie al
principio del pluralismo e della diversità delle idee alla ricerca della
verità. Quanto è diffusa e condivisa la
consapevolezza di aver ricevuto l’incarico “di essere da esempio per l’umanità
intera”?
Ricordo che la Bibbia
ebraica ci offre un esempio, costruito in modo magistrale, di un profeta scelto
e inviato da Dio a comunicare un suo messaggio al popolo considerato il grande
nemico. Giona – è lui il protagonista di questa storia emblematica – dapprima rifiuta
platealmente l’incarico e poi quando è costretto ad eseguirlo, lo fa stizzito e
indignato verso quel Dio che lo aveva “eletto”.
Nella nostra storia
forse ci sono stati troppi emuli del profeta riottoso che dava alla “gelosia”
del suo Dio un’interpretazione di comodo, smentendo nei fatti quanto proclamava
con le parole.
Padre Giovanni, se permette, vorrei tornare su un argomento che ho già posto alla sua attenzione: l’Antico Testamento è un insieme di libri (il che è ovvio) di diverso genere fra i quali la storia del popolo ebraico. Ora questa storia, dice lei molto correttamente, è stata scritta da gente di un tempo antico che aveva intenti, diremmo oggi, propagandistici ed era scritta spesso per sentito dire e sulla base di una immatura tecnica storiografica. Si trattava, come bene lei ha notato, di racconti epici analoghi a quelli di altri popoli contemporanei, cioè non ‘Storia’ ma autoesaltazione nazionalistica.
RispondiEliminaSe questo è vero perché insistiamo a dire che la Bibbia ebraica (cioè l'Antico Testamento) è ispirata, qualcuno dice addirittura dettata, da Dio? Perché dovremmo credere in tutto quello che c’è scritto?
Ovvero dobbiamo distinguere una rivelazione dogmatica e perciò indiscutibile, che sarebbe poi la prima parte della Genesi, dalla storia del popolo? Cioè possiamo ammettere che la storia sia dubitabile, mentre dobbiamo credere alla Genesi, che è ‘mitologica’?
Quanto all'idea che il popolo eletto debba essere un superiore esempio per gli altri popoli, beh! francamente, quest'idea è peggio di un mito, è presunzione smentita dai fatti.
Signor Agostino, vedo con piacere che si interessa della Bibbia, a cui ho dedicato tutti i miei studi. Il suo commento pone dei problemi di fondo ai quali cerco di rispondere anche su questo blog poco alla volta. Non solo per la storia ma anche per tutti gli altri temi affrontati, la Bibbia si esprime secondo schemi mentali comuni ai popoli contemporanei nelle diverse epoche in cui sono stati scritti i singoli libri che la compongono. Presso tutti i popoli i racconti "storici" erano l'esaltazione del sovrano regnante e dei suoi sudditi. Anche se numericamente erano insignificanti, venivano considerati il centro del mondo, tutto era visto e presentato da quel punto di vista, tutto girava attorno al proprio re e al suo popolo. Israele, se vogliamo, ha accentuato questa caratteristica ma era una cosa normale. In fondo anche oggi accade la stessa cosa: i giornali di Viterbo parlano della nostra città come se fosse unica, presentano santa Rosa come la più grande santa, abbiamo portato "la macchina" addirittura all'EXPO! Che il grande re Davide così esaltato dalla Bibbia sia un illustre sconosciuto per le cronache stilate dai grandi imperi suoi contemporanei non mi fa nessuna meraviglia, è normale che sia così! Riflessioni di questo genere si devono fare per tutta la Bibbia compreso il Nuovo Testamento. Quindi anche per quanto riguarda tutto ciò che si riferisce a Dio che viene presentato con caratteristiche tipicamente umane con quello che chiamiamo antropomorfismo, insieme all'affermazione che il Dio adorato dagli Ebrei (e da noi cristiani!) è totalmente diverso da quello che pensiamo. Su questa linea ci dobbiamo mettere se vogliamo capire qualcosa della Bibbia e apprezzarne l'importanza. Per quanto si riferisce alla presunta superiorità del popolo di Israele, forse non sono stato chiaro io. Mi riferivo alla "esemplarità" della scelta compiuta da Dio di affidare a un gruppo di persone un incarico rivolto all'interesse di tutti. Non era mia intenzione giudicare se gli Ebrei siano stati, in passato e oggi, fedeli alla missione che la Bibbia afferma essere stata affidata loro da Dio. Su altri temi toccati da lei (e sono tanti) ho intenzione di tornarci su nei post che mi auguro di poter continuare a pubblicare.
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