È diventata
un’abitudine diffusa usare parole ebraiche per indicare dei termini ritenuti
importanti nel linguaggio biblico e forse anche per dare un certo tono
culturale a quanto si scrive. Capita sempre più spesso di imbattersi non solo
con l’abusato shalom (pace) ma anche
con ruach (vento, spirito), chesed (misericordia), rachamim (viscere, amore). Io stesso
cedo a questa moda che presenta anche aspetti positivi almeno come stimolo alla
curiosità del lettore. Una di queste parole con funzione di specchietto per
attirare l’attenzione è qol che già
nella scrittura presenta un’anomalia per la lingua italiana, con quella “q”
iniziale a cui non siamo abituati. Chi usa questa parola le dà il significato
di “voce” che, nella lingua italiana, indica “il suono articolato dall'essere umano tramite le corde vocali parlando, ridendo, cantando, piangendo o urlando” secondo la definizione
che ne dà Wikipedia. Non c’è niente di strano se un italiano leggendo nella
Bibbia l’espressione frequente “la voce di Dio” le dà il significato che trova
nei dizionari e nell’uso comune. Se poi il nostro lettore ha visto qualche film
“biblico” in chiave hollywoodiana è autorizzato ad immaginare Dio che parla con
voce roboante seguita da un’eco interminabile.
Una parola dai cento significati
Però se cerchiamo la
parola qol in un vocabolario ebraico
troveremo che il primo significato elencato è “rumore, strepito, fragore,
chiasso, suono” con rimandi ai testi biblici dove il termine in questione è
usato con questa accezione. Il libro del profeta Ezechiele usa il termine con una
certa frequenza in questi diversi significati. Così in 1,24 sembra che ci sia
un concentrato dei vari significati che mettono in imbarazzo i traduttori
costretti a trovare sinonimi adatti ai vari soggetti rumorosi. Il termine qol è ripetuto cinque volte più una
sesta all’inizio del verso seguente, ma i traduttori italiani si sentono in
dovere di precisare che si tratta di “rombo
delle ali” simile al “rumore delle
cascate, al tuono dell’Onnipotente,
al fragore di una tempesta e al tumulto di un accampamento”, cinque
parole che non hanno niente in comune con la definizione di “voce” offerta dai
dizionari italiani. Sempre la stessa parola in 26,10 indica lo “strepito dei cavalieri” mentre in 26,13
diventa il “suono delle cetre”.
Il “tuono dell’Onnipotente” (qol Shadday) di Ezechiele 1,24 diventa “tuono di YHWH” (qol YHWH) nel Salmo 29 che lo ripete per sette volte nella
descrizione di una violenta tempesta che si è formata sul Mediterraneo per
abbattersi sulla costa occidentale, sul Libano e infine sul deserto siriano. Ma
oltre allo sconquasso di una bufera qol può
indicare anche il leggero “fruscìo”
di una foglia che cade (Levitico
26,36). In senso figurato non richiede nemmeno qualche suono sensibile: la voce
del sangue di Abele grida a YHWH dal suolo (Genesi
4,10). Il Salmo 19 afferma che tutte le creature proclamano la gloria di Dio
semplicemente con la propria esistenza senza bisogno di far sentire la loro
voce (Salmo 19,4-5).
Con la “voce delle colombe” (Nahum 2,8) ci avviciniamo alla
definizione dei dizionari italiani che parlano di “organo della fonazione”
fondamentalmente comune a uomini e animali. Riferendosi a colombe il profeta
Nahum non pensava certo a uccelli parlanti ma soltanto al verso emesso che viene
interpretato come un lamento. Per l’autore del libro di Giobbe il suono del
flauto richiama “la voce di chi piange”
(Giobbe 30,31), già espressiva da
sola senza bisogno di parole.
Quando la voce è quella
dell’uomo, normalmente si presuppone che venga usata per esprimere i pensieri o
i sentimenti. Se chi prega dice: “innalzo
la mia voce a YHWH” (Salmo 3,5)
ci fa pensare ad una preghiera recitata ad alta voce, non certo ad un grido
disarticolato. È l’uso normale della voce nei dialoghi tra uomini e nella preghiera
a Dio. Non c’è da meravigliarsi se nella cultura ebraica si attribuisce a Dio
una voce per comunicare con gli uomini, rispondendo alle loro preghiere o
indicando come si devono comportare. Il linguaggio della Bibbia ricorre
continuamente ad antropomorfismi attribuendo a Dio un volto, occhi, orecchie,
braccia, mani come anche sentimenti e comportamenti tipicamente umani, pur
rifiutando decisamente qualsiasi rappresentazione della divinità sotto forma di
statue o disegni. Non si vede un motivo per considerare la voce un’eccezione a questo schema rigido.
Il tuono e il Decalogo
Eppure si sono sempre letti
i testi che usano l’espressione “voce di
Dio” come se riferissero un fenomeno uditivo sensibile, anche se riservato
solo a pochi privilegiati. Non si è tenuto conto di una caratteristica tipica
della letteratura ebraica: il gusto e la capacità di raccontare. Tutta la
Bibbia (ricordo: anche il Nuovo Testamento!) è un grande racconto reso vivo non
solo da descrizioni accurate ma soprattutto dai dialoghi tra i protagonisti. YHWH,
il protagonista assoluto di tutte le vicende narrate, poteva starsene in
silenzio nel suo palazzo nei cieli? Era semplicemente impensabile. YHWH parla,
fa sentire la sua voce in tanti modi anche quando il suo popolo ha paura di
sentirlo e scarica su Mosè il rischio di un dialogo tanto impegnativo.
Il testo è esplicito
nel descrivere la scena grandiosa riportata nel libro dell’Esodo al capitolo 19:
“… vi furono tuoni (qolot voci) e fulmini, una nube densa
sul monte e un suono (qol) fortissimo del corno… il suono (qol) del corno diventava sempre più intenso: Mosè parlava e Dio gli
rispondeva con un tuono (qol)” (Esodo 19,16.19). Il racconto si conclude nel capitolo seguente: “Tutto
il popolo percepiva i tuoni e i
lampi, e il suono del corno… il
popolo ebbe paura e dissero a Mosè: ‘Parla tu con noi, ma non parli con noi Dio
altrimenti moriremo’” (Esodo
20,18-19).
Il pio desiderio di
dare importanza alle “dieci parole” (i dieci comandamenti) ha trasformato i
tuoni in suoni articolati come parole inducendo il lettore ad interpretare il
racconto nel modo diventato tradizionale e ufficiale, tanto che uno studioso ha
potuto scrivere: “… la Bibbia stessa presenta un caso – unico nel suo interno –
di ‘scrittura divina’. Il libro dell’Esodo racconta che nell’esperienza del
Sinai il popolo udì direttamente le parole del Decalogo pronunciate da Dio dal
monte (cf. Es 20,1-21; Dt 5,1-22)”. L’affermazione viene ribadita nelle righe
seguenti che insistono sull’assenza di ogni mediazione umana perfino nella
scrittura delle “dieci parole”. Ma il testo di Esodo 20,18 come si è visto,
dice che il popolo “percepiva i tuoni, i lampi e il suono del corno” ed esclude
che li interpretasse come parole.
Attribuire alla Bibbia quello
che non dice, significa renderle un pessimo servizio, anche se lo si fa in
buona fede e con le migliori intenzioni. La pagina dell’Esodo su cui ci siamo
fermati è composta con una forza espressiva straordinaria, assemblando in modo
mirabile tradizioni diverse con lo scopo di mettere al centro dell’attenzione
il tesoro più prezioso conservato dal popolo di Israele. L’autore di questo
racconto ha raggiunto il suo scopo ma solo se lo leggiamo per quello che è
effettivamente, senza darne interpretazioni di comodo.
In un post pubblicato
nel 2011 e ripresentato a maggio dello scorso anno dal titolo “Dio parla nella
Bibbia. Come?” presentavo i tre modi fondamentali con cui sono riferite le
parole di Dio: nella Torah sotto forma di leggi, nei libri profetici come rivelazione
personale ma indirizzate al popolo, nei libri sapienziali come frutto di
riflessione sulle esperienze della vita. In ogni caso, le “parole di Dio” sono
pronunciate o dal legislatore-narratore o dal profeta (che può anche annunciare
il falso!) o dal maestro di sapienza. La Bibbia è ben lontana da certe letture
infantili assetate di magia e di miracolistico che sono state fatte in passato
e che perdurano ancora in certi ambienti.
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