
In questa ritualità così rigida, Gesù introduce
degli elementi nuovi che assumono quindi un valore particolare. I racconti dei
vangeli non si fermano a spiegare le varie fasi della cena. Erano conosciute da
tutti. Ogni evangelista ricorda solo quegli aspetti di novità che rientrano nel
profilo di Gesù che sta delineando. La cena rituale che celebra la Pasqua è
soltanto lo sfondo che fa risaltare e mette nella giusta luce la continuità con
la tradizione ebraica e la nuova realtà attuata da Gesù.
Le novità introdotte da Gesù. La prima:
il Maestro lava i piedi ai discepoli
La prima sorpresa è narrata da Giovanni: Gesù
lava i piedi agli invitati. Era un rito abituale, un gesto nato per motivi
pratici e poi diventato segno di accoglienza e di rispetto verso gli ospiti.
Era tanto ovvio che non c’era bisogno di farlo oggetto di particolari
prescrizioni. Non era certo il padrone di casa che provvedeva personalmente
alle abluzioni degli ospiti. Suo dovere era procurare il necessario alla
bisogna e offrire spazio e tempo per espletare il tutto. In un’occasione Gesù
aveva rinfacciato senza peli sulla lingua ad un fariseo la mancanza di questo
gesto di buona educazione e aveva lodato la donna che vi aveva provveduto
diversamente.
Il gesto compiuto da Gesù in modo insolito,
contro le consuetudini aveva colto di sorpresa gli apostoli. Il solito Pietro
reagisce tra l’imbarazzo generale ed esagera con le sue proteste costringendo
Gesù a spiegare il significato di quanto aveva fatto: era un esempio del
servizio che i suoi discepoli dovevano seguire nei rapporti tra di loro.
Seconda novità:
Gesù manda via Giuda

Naturalmente il
racconto di Giovanni presuppone tutte queste informazioni che per noi sono
necessarie per capire il significato di un gesto che non ci è abituale.
L’esclusione di Giuda Iscariota (in ebraico Ish Qeriot cioè Uomo di
Qeriot?) dal proseguimento della cena è dovuta all’incompatibilità del suo
comportamento con quanto Gesù stava per fare con gli altri apostoli. Giovanni
non lo dice e si dilunga a riferire il dialogo con gli undici rimasti, nel
quale Gesù manifesta i suoi sentimenti più intimi.

Terza novità:
riduzione del menu al pane e al vino
Pane e vino sono gli alimenti comuni alle due
parti della cena e ne evidenziano la continuità, ma allo stesso tempo diventano
i protagonisti unici nella seconda parte del banchetto determinandone
l’originalità. Il comportamento di Gesù, inserito in un rituale celebrativo
piuttosto rigido, se ne discosta non come contrapposizione ma come sviluppo di
elementi precedenti.

Le prime “cene-ricordo” fatte dai cristiani
Paolo scrivendo ai cristiani di Corinto descrive
una situazione in cui questa consapevolezza non si era ancora affermata. Alla
cena comune ognuno si portava il proprio menu che non condivideva con gli altri
evidenziando così le differenze sociali tra ricchi e poveri. A conclusione
dell’incontro conviviale si “faceva memoria” di quanto aveva fatto e detto
Gesù, dopo di che ognuno tornava alla propria casa, chi a stomaco pieno e chi a
stomaco vuoto. Non era facile, in quelle condizioni, distinguere tra il pane
inzuppato nelle varie salse più o meno piccanti e il pane insipido che Gesù
aveva detto essere il suo corpo.
Paolo taglia corto. Dato che quando siete un
po’ brilli fate fatica a riconoscere il corpo di Cristo, mangiate e bevete a
casa vostra – scrive ai cristiani di Corinto – e poi, quando avete smaltito la
sbornia, radunatevi pure ma solo per fare memoria della cena del Signore. E
conclude con una minaccia pesante di condanna per chi non tiene conto delle sue
indicazioni.
È chiaro che Paolo non è mosso da
preoccupazioni moralistiche per evitare la contaminazione del corpo di Cristo a
contatto con i cibi. Lo stomaco ingombro
– lo sapevano tutti anche allora – appesantisce la mente, annebbia il
cervello e rallenta i riflessi rendendo ancora più difficile riconoscere in
quel pane una presenza accolta per fede. Paolo non prescriveva ricette mediche
(“una pasticca al mattino a digiuno”) ma applicava semplicemente il criterio
che usava riguardo ai cibi, compresa la carne offerta nei sacrifici agli idoli.
Chi è nato prima del Concilio Vaticano secondo
ricorderà certamente la rigidità con cui si interpretava il digiuno eucaristico,
basandosi proprio sul rispetto dovuto alle “sacre specie”. Si spiegano così
anche le resistenze che bloccano ancora molti cattolici impedendo di ricevere
sulla mano il pane consacrato.
Sèder e Messa a confronto
Tralasciando altre considerazioni, riprendo il
confronto tra i due termini con cui sono identificati la cena pasquale ebraica
e la cena del Signore della liturgia cattolica. La parola ebraica sèder è
un termine generico e indica una serie di indicazioni da seguire per compiere
un’azione complessa e può riguardare la celebrazione di festività religiose.
Nell’uso si è venuto ad identificare con la festa più importante, la Pasqua,
fino a diventare quasi un suo sinonimo.
Nel caso della celebrazione cattolica, il
termine messa, originato forse da una parola latina intesa come
“commiato” o “saluto di congedo” indicava l’atto conclusivo dell’incontro di
preghiera dei fedeli. Quando il popolo ha perso la familiarità con la lingua
latina ha però conservato nella memoria il suono di quella parola, l’ultima che
sentiva pronunciare dal sacerdote. Il passo ad indicare con quel nome tutto
quello che precedeva era inevitabile ed è stato compiuto con le conseguenze che
sperimentiamo ancora oggi.
La storpiatura di espressioni latine e greche è
un fenomeno linguistico noto e frequente nella lingua italiana e nei vari
dialetti, basti pensare alla “befana” (da “epifania”) o all’espressione “andare
in visibilio” (dal Credo: “visibilium omnium et invisibilium” [Dio
creatore] di tutte le cose visibili e invisibili). Cercando sulla rete, si
possono trovare numerosi esempi di storpiature di frasi latine sentite
pronunciare nella liturgia, ma ognuno potrebbe aggiungerne altre pescate nei
ricordi personali. Tra quelli che mi vengono in mente dalla mia infanzia è il
modo di manifestare la fiducia nella protezione materna di Maria da parte delle
vecchiette che cantavano in piemontese: “Ca tempesta (cioè, grandine) pura, mi
la paro tuta” [può anche grandinare, io la raccolgo tutta] che traduceva il
latino dell’Ave maris stella “vitam praesta puram, iter para tutum”
[concedi una vita pura, prepara un cammino sicuro].
La parola “messa” non storpiava il suono ma il
significato di ciò che voleva indicare. Non meraviglia che ciò sia avvenuto in
tempi lontani per opera di un popolo che stava forgiando la propria lingua. Meno
comprensibile che in una società come la nostra che rifiuta termini chiarissimi
e ben stagionati come spazzino, bidello, cieco, ecc. sostituendoli con
espressioni tipo: netturbino sostituito a sua volta da operatore ecologico,
oppure personale parascolastico, o ancora ipovedente, oppure con diversamente
abili ecc. non si percepisca l’inadeguatezza di una parola ad indicare
l’oggetto a cui è stata abbinata, come appunto nel caso della messa.
Non mi illudo che si arrivi a cambiare il
vocabolario. Mi basterebbe anche solo che si avesse il coraggio di dire a chi
non condivide le nostre convinzioni sul pane e sul vino che mangiamo e beviamo
nella cena del Signore: “Caro amico, ci salutiamo qui. Adesso lasciaci perché
stiamo per fare una cosa che sarebbe troppo lungo spiegarti. Mi sembra una
mancanza di rispetto verso di te, invitarti a vedere noi che mangiamo e beviamo
mentre tu stai a digiuno”.
È evidente che questo discorsetto non va fatto
solo ai musulmani ma anche a tutti quelli che, battezzati o no, non credono più
o non hanno mai creduto a quanto ha detto Gesù su quel pane e sul vino dopo
aver imposto a uno degli invitati di abbandonare immediatamente la compagnia:
“Torna a casa tua, per te l’incontro è terminato” Ite, missa est!
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