…MA NON CHIAMIAMOLA MESSA!
“Ite, missa est”. Era il saluto con cui il sacerdote
congedava i fedeli che avevano partecipato alla Cena del Signore Gesù
rispondendo al suo invito: “Fate questo in mia
memoria”. Non era soltanto un incontro conviviale di un gruppo di amici, ma era soprattutto rivivere l’esperienza degli apostoli in quell’ultima cena con Gesù prima della sua morte. Il Maestro aveva parlato a lungo, aveva confidato i suoi sentimenti più intimi e soprattutto aveva promesso di rimanere sempre con loro come il pane e il vino che non potevano mai mancare, anche nel cibo dei più poveri, per garantire la vita.
I primi cristiani avevano coscienza di realizzare qualcosa di singolare in quei loro incontri, anche se c’era già qualcuno che non aveva capito bene la differenza tra una cena normale tra amici e quel pasto a menu fisso: Gesù in persona con la sua parola e con tutto se stesso, corpo e sangue. Paolo denuncia questa confusione descrivendo quanto accadeva a Corinto (1 Corinzi 11,17-34). “18Innanzi tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo. 19È necessario infatti che sorgano fazioni tra voi, perché in mezzo a voi si manifestino quelli che hanno superato la prova. 20Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore”.
memoria”. Non era soltanto un incontro conviviale di un gruppo di amici, ma era soprattutto rivivere l’esperienza degli apostoli in quell’ultima cena con Gesù prima della sua morte. Il Maestro aveva parlato a lungo, aveva confidato i suoi sentimenti più intimi e soprattutto aveva promesso di rimanere sempre con loro come il pane e il vino che non potevano mai mancare, anche nel cibo dei più poveri, per garantire la vita.
I primi cristiani avevano coscienza di realizzare qualcosa di singolare in quei loro incontri, anche se c’era già qualcuno che non aveva capito bene la differenza tra una cena normale tra amici e quel pasto a menu fisso: Gesù in persona con la sua parola e con tutto se stesso, corpo e sangue. Paolo denuncia questa confusione descrivendo quanto accadeva a Corinto (1 Corinzi 11,17-34). “18Innanzi tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo. 19È necessario infatti che sorgano fazioni tra voi, perché in mezzo a voi si manifestino quelli che hanno superato la prova. 20Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore”.
L’accusa di Paolo riguarda il fatto che ognuno portava le
proprie provviste determinando così la divisione tra ricchi e poveri in quello
che doveva essere un pasto che ho definito a “menu fisso”, cioè il corpo e il
sangue del Signore Gesù. Notiamo che in questo caso non c’è polemica di
carattere sociale: “22Non avete forse le vostre case per
mangiare e per bere?”, concetto ripetuto a conclusione dell’intervento “se
qualcuno ha fame, mangi a casa” (11,34).
Paolo ricorda che nella cena del Signore non c’è spazio per
i protagonismi perché il centro unico è Gesù come emerge chiaramente dal
racconto di quel momento che ormai era diventato patrimonio comune di tutte le
comunità cristiane. Il mancato riconoscimento dell’unicità di quella “Cena” è
causa di un giudizio severo: “chi mangia e beve senza riconoscere il corpo
del Signore, mangia e beve la propria condanna” (11,29).
Adattamenti stabilizzati
Gli studiosi di storia della liturgia hanno individuato i
tempi e i motivi delle trasformazioni avvenute nel modo di ricordare quanto
aveva fatto Gesù in quella cena con gli apostoli. Col passare del tempo sono
state aggiunte preghiere varie per rispondere a necessità particolari, segno
della consapevolezza del valore universale attribuito alla preghiera di Gesù. Sono
stati introdotti gesti simbolici che volevano rendere comprensibili ai
cristiani di regioni e culture differenti i significati che si venivano
scoprendo grazie alla riflessione teologica.
Guidati dal principio accettato da tutti che non si poteva
togliere nulla a quanto era stato acquisito in precedenza si è avuta una crescita
inarrestabile di elementi sovrapposti che hanno finito con l’appesantire lo
svolgersi lineare e semplice di un incontro conviviale, per quanto unico e
caratteristico.
Chi ha i capelli bianchi forse ricorderà la sfilza delle
preghiere “per varie necessità”, sempre comunque in numero dispari (!); i
lunghi silenzi dovuti alla recita bisbigliata del sacerdote celebrante,
interrotti dall’improvviso “nobis quoque peccatoribus” che si
intrufolava nel rosario delle vecchiette, introdotto per riempire un vuoto celebrativo.
Il campanello, conteso tra i chierichetti, col suo tintinnio sembrava una
sveglia per un gruppo di persone assopite o un segnale per gli uomini che si
intrattenevano in conversazioni fuori della chiesa aspettando di entrare all’ultimo
minuto utile per “non perdere la messa”.
Il momento in cui il
sacerdote ripeteva le parole di Gesù era conosciuto come “l’elevazione” che
alcuni confondevano con il sollevamento della “pianeta” da parte del
chierichetto di turno. Il “lavabo”, staccato dalla realtà che lo aveva
originato, era presentato come il ricordo del gesto di Pilato che si lavava le
mani per dichiarare la sua estraneità a quanto accadeva a Gesù. Questa estraneità raggiungeva il culmine quando si
rifiutava di distribuire il pane a quanti erano stati invitati a cena. Ma
nessuno faceva notare l’incongruenza di un invito a vedere alcuni che mangiavano,
come se si trattasse di uno spettacolo.
Gli abiti indossati dai sacerdoti, assolutamente rispondenti
ad esigenze di vita e gusti di moda dei tempi antichi, erano diventati un
autentico enigma per una cultura che ormai si ispirava ad altri canoni estetici
e pratici. Che senso aveva indossare il “piviale” nelle
processioni sotto il sole di giugno quando lo stesso nome originale lo indicava come “mantello per ripararsi dalla pioggia” (dal latino pluvialis). O ancora, perché continuare a portare il “manipolo” destinato ad asciugarsi il sudore e il naso e che gli antichi avevano legato al polso sinistro per averlo “a portata di mano”, quando noi abbiamo la comodità di tenere il fazzoletto in tasca? Ecco il passaggio da indumento a “paramento”, indossato non per necessità ma per una “parata” cioè una messa in scena per dare spettacolo.
processioni sotto il sole di giugno quando lo stesso nome originale lo indicava come “mantello per ripararsi dalla pioggia” (dal latino pluvialis). O ancora, perché continuare a portare il “manipolo” destinato ad asciugarsi il sudore e il naso e che gli antichi avevano legato al polso sinistro per averlo “a portata di mano”, quando noi abbiamo la comodità di tenere il fazzoletto in tasca? Ecco il passaggio da indumento a “paramento”, indossato non per necessità ma per una “parata” cioè una messa in scena per dare spettacolo.
È questa l’immagine delle nostre liturgie che siamo riusciti
a comunicare ad un pubblico estraneo ai nostri ambienti anche se composto da
persone regolarmente battezzate e cresimate. È emblematico il caso di Federico
Fellini con la scena impietosamente vera della sfilata di moda ecclesiastica
nel film Roma. Le innovazioni tecnologiche, gli effetti spettacolari, i raggi laser
non bastano a cancellare l’atmosfera fumosa dell’incenso che si mescola con la
polvere sollevata dai quadri di epoche lontane rimpiante da una nobiltà
fatiscente. Quelle tiare sorrette da un bastone rappresentano al meglio il
nulla percepito da un estraneo presente alle nostre liturgie solenni.
Da cena condivisa a cerimonia commemorativa
Ridotta a questa dimensione spettacolare, la celebrazione
della messa perdeva la sua caratteristica originale per assumere i contorni di
una cerimonia sempre più legata a regole rigide, a rituali che dovevano
rispettare scale di valori e di “dignità” originate dalla società civile e
trasportate di peso all’interno della chiesa che proclamava di ispirarsi a
valori ben diversi che erano contenuti nel Vangelo.
Condividendo in pratica gli stessi ordinamenti, era
naturale e doveroso lo scambio di
presenze delle rispettive “autorità” a cerimonie celebrative di avvenimenti e
personaggi tipici dell’una o dell’altra società. Questo anche per favorire la
convivenza armoniosa del potere civile con quello religioso. Ottimo intento che
non richiedeva certo la condivisione dei valori celebrati, ma unicamente la
presenza rispettosa. In fondo si trattava di opportunismo politico o, se
vogliamo, di buona educazione.
Si capisce così la presenza compunta alle messe solenni di
uomini politici dichiaratamente atei o miscredenti oppure notoriamente
libertini (come si diceva una volta). Altrettanto comprensibile la presenza di
vescovi e cardinali, o anche di “semplici monsignori”, a cerimonie
patriottiche, culturali, sportive o di spettacolo a cui, per definizione, non
avrebbero dovuto avere il minimo interesse. Quante volte queste “autorità” sono
state immortalate in filmati o foto che li ritraevano annoiati o addirittura
appisolati. La loro presenza era dovuta a motivi diversi da quelli pensati dalle
rispettive istituzioni. Si trattava di scambio di cortesie, niente di più.
Penso anche alle messe in occasione di funerali o di
matrimoni. Spesso la presenza del pubblico è dovuta a motivi di parentela o di
amicizia oppure a solidarietà con l’ideologia politica dei protagonisti della
cerimonia. E ritorna sempre la stessa domanda: “Che c’entra la cena del
Signore?”. Gli invitati al matrimonio aspettano solo di sentir dire “La messa è
finita” per lasciare il campo libero ai fotografi e per avviarsi verso il
ristorante dove finalmente si mangia e si beve e si fa festa. Ma non hanno già
fatto cena con il Maestro?
Tranquilli, non sono così ingenuo, idealista e integralista
da non distinguere le due cose. Anche Gesù non solo parla dei banchetti di
nozze ma vi prende parte attiva lui stesso con il gruppo dei suoi amici. Sapeva
di che cosa si trattava. Ma ogni cosa ha il suo tempo e i suoi modi di essere.
Chi si trova in una situazione che non conosce o di cui si è
fatto un’dea sbagliata ha ragione di sopportare in qualche modo la cosa
aspettando che qualcuno lo autorizzi ad andarsene senza fare brutta figura. “La
messa è finita!” dice il prete o chi per lui (noi sappiamo che si chiama
diacono, cioè inserviente!) “Finalmente!” commenta mentalmente il nostro ospite
casuale che se ne va sollevato. Forse è anche in grado di sintetizzare la sua
esperienza come la giapponesina che si era trovata in una chiesa cattolica.
Alla domanda “Che cosa hanno fatto?” rispose “In piedi, seduti! In piedi,
seduti!”. Descrizione forse un po’ riduttiva.
A Messa con i musulmani?
Con queste premesse non c’è da meravigliarsi se qualche
vescovo, sostenuto da parte di un’opinione pubblica che si definisce pacifista,
si è rallegrato per la presenza di autorità e fedeli islamici alle messe
domenicali per dimostrare solidarietà con i cattolici in occasione
dell’assassinio di un sacerdote in una chiesa di Francia. Lodevole l’intenzione
di superare le barriere che ci separano. Mi pare però discutibile aver scelto
la messa come test dimostrativo.
Sarebbe doveroso fare alcune osservazioni a partire dalla
teologia islamica, ma il discorso ci porterebbe molto lontano e in un campo
minato. Limitandoci alla riflessione cristiana, la presenza di non credenti o
di seguaci di altre fedi al mistero che riassume la nostra fede è intrinsecamente incompatibile. A maggior
ragione per la fede islamica che nega esplicitamente qualificando come
bestemmia quanto noi affermiamo a proposito di Gesù.
A meno che… a meno che non consideriamo la messa come un
semplice rito, come una cerimonia commemorativa anodina. Cosa che invece è
accaduta in passato, come abbiamo visto in precedenza. Mi sforzo di capire quei
vescovi esultanti e non metto in dubbio la loro fede nel mistero. Ma
l’abitudine di celebrare di fronte alle autorità riverenti, anche se non
credenti, non può aver influito subdolamente sul modo di considerare la “cena
del Signore”? Se tutti siamo d’accordo nell’indicarla con un termine che non la
definisce per quello che è, non c’è motivo di esigere dai musulmani quello che
è tollerato negli altri casi. Il ragionamento ha una sua logica.
Sono soltanto mie supposizioni (maligne, penserà qualcuno),
ma nascono dal desiderio di capire la realtà in cui vivo. È un desiderio che mi
ha sempre accompagnato e che è cresciuto a contatto con le esperienze che
andavo facendo. I ricordi più lontani che ho salvato nella mia memoria
riguardano proprio la messa. Ci andavo con la mamma e mi sentivo attratto dal
silenzio che regnava in chiesa ma soprattutto da quell’uomo, vestito in modo
strano, che parlava una lingua che non capivo ma che mi attirava per le sue
sonorità. Ripetevo le parole ma soprattutto mi sarebbe piaciuto poter ripetere
quei gesti misteriosi. Non avevo ancora compiuto sei anni quando fui ammesso
alla prima comunione. Il passo successivo mi portò sui gradini dell’altare come
chierichetto. Non arrivavo a spostare il leggio con il messale (non sono mai
stato un campione di altezza) ma potevo suonare il campanello, alzare la
pianeta, rispondere in latino evitando gli strafalcioni delle “pepie” (così
chiamavamo a Torino le vecchiette rosarianti).
Non era gran che, ma è stato sufficiente per portarmi in
seminario dove nel corso dei lunghi anni di studio ho scoperto progressivamente
che cosa era quella messa che mi aveva affascinato fin da bambino. E sono
passato attraverso le vicende di questi ultimi cinquant’anni nei quali la messa
è stata forse l’indice più significativo dei cambiamenti avvenuti nel modo di
vivere la nostra fede cristiana. Poco per volta mi sono liberato dalle
incrostazioni che avevano appesantito la linearità dell’evento originale fino
ad indicarlo con quel nome strano che nessuno spiegava con certezza ma che
certamente non comunicava nulla a chi lo sentiva. O peggio, poteva trasmettere
un messaggio che ne alterava il vero significato.
“Ite, missa est!”. “Andate, è il momento di mandarvi via!”
facendo derivare quella parola “missa” dal verbo latino mittere,
inviare, spedire. In altre parole era l’invito a tornarsene a casa. Quando il
saluto finale è stato identificato con quello che precedeva si è giunti
all’assurdo che “andare a messa” significava andare a sentirsi dire “tornate a
casa!”. L’ignoranza del latino, la pigrizia intellettuale di spiegare le cose, il
pressapochismo di comodo hanno consolidato un equivoco di cui portiamo ancora
le conseguenze.
Ad ogni cosa il suo nome
Secondo il racconto biblico, la prima attività dell’uomo è
consistita nel dare il nome agli esseri viventi (Genesi 2,19-20) con una
decisione a cui si sottomette lo stesso Dio. Evidentemente, attribuire il nome
“messa” alla cena consumata da Gesù con gli apostoli era un’eccezione clamorosa
in contrasto con la capacità dell’uomo di conoscere le cose e di indicarle con
il nome giusto.
Questa osservazione, insieme a tante altre, mi ha aiutato ad
andare oltre ai luoghi comuni che apparentemente semplificano la vita ma che a
lungo andare finiscono per creare più problemi di quanti ne hanno risolti. Una
domanda ha sempre guidato le mie riflessioni: gli estranei alla nostra fede
come vedono i nostri paramenti, i nostri atteggiamenti, i nostri gesti, le
nostre parole, le preghiere che recitiamo?
Ricordo l’impressione che ho avuto a Gerusalemme dove mi
trovavo per concludere gli studi biblici, quando vedevo i gruppetti di giovani
studenti delle scuole rabbiniche che sciamavano per strada nelle loro
palandrane nere, con in testa la kippà nera, con le peot (in
italiano li chiamano cernecchi) ugualmente nere, che si muovevano come
un solo uomo quasi fossero telecomandati. Mi sembravano tanto, ma tanto strani
fino a che non ho pensato ai nostri seminaristi che dovevano indossare talare
nera e cappello nero (noi lo chiamavamo saturno per la sua forma
bizzarra) fin dalla tenera età di dieci anni, anche quando giocavano a calcio o
uscivano inquadrati per la passeggiata quotidiana.
Un “Grazie!” al cinema
E mi sono sentito in dovere di guardarmi allo specchio con
gli occhi di chi non conosce le mie abitudini per sperimentare che cosa prova
uno che vede i miei comportamenti. Ringrazio il mio interesse per il cinema che
è stato per me questo specchio rivelatore di come una persona “normale”
percepisce il nostro modo di pregare e di celebrare la messa, per fermarmi solo
a questo aspetto. Ho capito quanto fastidio provochi nei non addetti ai lavori
il rosario biascicato a velocità da Gran Premio di F1, o il tono melenso con
cui si dicono le preghiere, o la voce nasale che si tira fuori quando si vuole
dare solennità a quanto si dice oppure si vuole sottolineare il distacco dalla
vita reale tuonando come un oratore del ‘600. Come se non esistessero già da
qualche anno i radiomicrofoni.
Senza parlare dei segni di croce non solo dei giocatori di
calcio quando entrano o escono dal campo ma soprattutto di quelli con cui, dai
semplici preti fino al papa, si benedicono persone o cose. Che si tatti di un
segno che rappresenta una croce bisogna leggerlo nei testi che ne parlano o lo
si deve dare per scontato. In realtà viene percepito come un gesto che ricorda
più che altro quello che tutti compiamo quando, infastiditi, cerchiamo di
liberarci dalle mosche. Il cinema ha semplicemente esasperato questi gesti
accentuandone il lato caricaturale. A me da fastidio vederli perché a volte
sono dovuti a disprezzo verso la religione, ma purtroppo devo riconoscere che
spesso corrispondono a quanto realmente si fa nelle nostre assemblee.
Tutto questo ha finito per avvolgere la messa in quell’alone
di “mistero” che non corrisponde certo a quello che dichiariamo stancamente
“mistero della fede” ma semplicemente dimostra la non conoscenza di quello che
stiamo facendo. E le cose non cambiano se al posto dello Stato maggiore
dell’esercito sull’attenti allo squillo della tromba si sostituisce un milione
di giovani abituati a vivere i loro incontri in un clima non proprio
rispondente a quello dell’Ultima Cena.
Ci sono anche altri motivi per cui non voglio né musulmani,
né atei, né libertini notoriamente tali, né autorità in divisa o senza, né
orchestre sinfoniche, né gruppi producenti suoni, né urlatori che si dimenano,
né coreografie a cui mancano solo i fuochi pirotecnici, quando mi trovo con un
gruppo di amici a ripetere parole e gesti di Gesù alimentando la mia vita con
la sua.
Ma è giusto limitare la presenza ai soli credenti? Non si
dice che il sangue di Gesù è sparso “per tutti”? Non entro nella discussione
ripresa anche recentemente sul significato da dare all’espressione “pro
multis” del latino che corrisponde al testo originale greco. Ritengo
corretta la traduzione “per tutti” ma questo si riferisce al valore universale
della salvezza e non alla presenza fisica alla cena consumata da Gesù con gli
apostoli.
Come
chiamare questa esperienza? Certamente, lo ribadisco, non si può chiamare
“messa”. Cena del Signore Gesù? Sarebbe molto semplice e soprattutto vero.
Intanto, in attesa che chi può decidere lo faccia presto e si corregga il
vocabolario, teniamo le porte chiuse a chi non condivide la nostra fede o non
sa nemmeno di che si tratti. Tenere le porte chiuse non significa “sbattere le
porte in faccia” ma semplicemente, in modo educato e con carità, chiedere ad
estranei di non violare la nostra privacy. A meno che non la riconosciamo come
tale
P. Giovanni grazie di tutto.
RispondiEliminaE' difficile non condividere i suoi post, frutto di attenta riflessione nonché di grande esperienza, che ci aprono gli occhi su tanti aspetti della vita, del costume, delle tradizioni, dei travisamenti, dei travestimenti ecc...E' vero, bisognerebbe dare un nome ed un senso a tutto. Al nome, una volta corrispondeva ciò che era di sostanziale. Ma poi ci sono state le diverse lingue, le traduzioni di tanti, le diverse interpretazioni, le personalizzazioni e via discorrendo, un bailamme indecifrabile, inestricabile, e il senso, per tanti termini, lo abbiamo perso. Così la Messa come ben evidenziato dal suo post oltre che il nome, in tanti esempi è stata persa, dimenticata o addirittura piegata e strumentalizzata ad esigenze contingenti.
Così condivido l’idea che la messa non dovrebbe essere aperta a chi non ammette/condivide la nostra fede o non sa nemmeno di che si tratti, in particolare a chi palesemente professa un'altra fede come gli imam islamici.
Intanto nell’attesa che quanto prima chi di dovere cambi il vocabolo “messa” così palesemente fuori contesto, rischio un mio pensiero… senza alcuna pretesa…
Suggerirei di cambiare il nome di messa in “MENSA”, così che al cambio di una sola e semplice consonante corrisponderebbe un cambio profondo di senso e di sostanza.
MENSA (del Signore Gesù Cristo figlio di Dio)
Mi viene in soccorso per questo nome anche il bellissimo Salmo 23, vv 5…
- Davanti a me tu prepari una “MENSA”… (l’altare)
- Cospargi di olio il mio capo… (con l’olio della Tua parola)
- Il mio calice trabocca… (il calice traboccante del corpo, sangue, anima e divinità del nostro Signore, per la nuova ed eterna alleanza)
- Felicità e grazia mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
e abiterò nella casa del Signore per lunghissimi anni
Sorprende come in una società come la nostra, così preoccupata di dare nomi giusti alle persone, alle professioni, ecc. non si faccia caso alla mancanza di senso del nome messa. Penso alle nuove definizioni che sono state sostituite ad espressioni secolari, come "diversamente abili", "operatori ecologici", personale paramedico, non udenti, non vedenti... e via di questo passo. Non pretendo che siano i laici a sentire l'incongruenza del termine "messa" ma mi meraviglia che gli addetti ai lavori (tanto per rimanere in tema, cioè preti, liturgisti, vescovi... e mi fermo qui)non percepiscano nemmeno le conseguenze negative portate da questa falsa denominazione. Penso che dovrò ritornare sul tema perché è troppo importante. Intanto grazie per il suggerimento, anche se l'ho subito associato a "mensa aziendale", che, sinceramente, non mi sembra il massimo auspicabile! Ma intanto è lodevole il tentativo di proporre una soluzione plausibile. Aspetto altre proposte. Grazie.
EliminaCaro P Giovanni, leggo sempre con interesse i suoi interventi anche se (per pigrizia?) non partecipo molto al dibattito. Ultimamente ho meditato quelli sulla S. Messa stimolanti dal punto di vista liturgico, biblico e dottrinale. Volevo sottolineare quell’aspetto della S. Messa che riguarda la partecipazione dei laici e che i sacerdoti, comprensibilmente, non evidenziano sufficientemente. Se senza Sacerdote (con la “S” maiuscola) il Sacrificio Eucaristico non si rinnova, c’è un sacrificio che ogni Laico può e deve attuare: nella vita quotidiana. Quelli della mia generazione si ricordano del commiato “Ite, missa est” e del liberatorio “Deo gratias” che noi bambini esalavamo sgranchendoci le ginocchia. Più tardi, alla scuola della Prof.sa Alfieri, poi confermata dal Concilio, ho appreso che quel saluto non era un commiato, ma un invito. Letteralmente dovrebbe essere: “Andate, è mandata” e uscendo la accompagniamo nella nostra giornata, nella nostra settimana, nella nostra vita. Quel saluto è come lo sparo che fionda i corridori dai blocchi di partenza, dove si sono raccolti in ginocchio ed hanno accumulato l’energia da consumare nella corsa, breve o lunga che sia. Dalle mani del Sacerdote si rinnova l’Offerta del memoriale del sacrificio di nostro Signore Gesù Cristo; dalle mani di noi laici, dalle nostre vite si rinnova l’Offerta di tutte le nostre azioni, delle gioie e dei dolori, dei baci e degli abbracci, della sofferenza e delle amarezze, degli slanci e delle paure, dei banali atti quotidiani e delle scelte importanti. Nell’atto penitenziale introduttivo abbiamo offerto le nostre azioni passate, in un breve esame di coscienza; all’Offertorio portiamo all’Altare insieme al Pane ed al Vino le nostre azioni future: il Pane ed il Vino per l’opera del Sacerdote diventano il Corpo ed il Sangue di Cristo, per l’opera nostra le nostre azioni diventano Chiesa Corpo Mistico di Cristo. Così noi laici realizziamo il nostro compito Sacerdotale di Cristo conferitoci dal Battesimo. La S. Messa non è un atto liturgico confinato nello spazio (una Chiesa, una stanza, un prato) o nel tempo (20’ o 1h), ma investe tutta la vita e tutto il creato, così noi laici realizziamo il nostro compito di Regalità di re dell’Universo conferitoci dal Battesimo. La S. Messa annuncia il Verbo, con la nostra vita annunciamo la Parola del Signore e il nostro compito di Profeti conferitoci dal Battesimo.
RispondiEliminaMario, mi è piaciuto quel "liberatorio Deo gratias esalato dai bambini desiderosi di sgranchirsi le ginocchia" una pennellata che descrive lo stato d'animo di troppi cattolici senza tener conto delle autorità presenti per obbligo di rappresentanza. Non metto in dubbio l'ortodossia delle definizioni date da teologi e liturgisti. Mi interessa la percezione che ne aveva la gente comune, il popolo cristiano, l'immagine che comunichiamo con i nostri gesti, con le nostre parole, con il tono della voce, con il modo di vestire. Tutti elementi di contorno che all'origine non c'erano e che sono stati aggiunti per rispondere ad esigenze di un determinato ambiente e che poi si sono fossilizzati. Non condanno tout court il passato ma certo non lo rimpiango. Quanto poi all'interpretazione di "messa" come "missione" evangelizzatrice affidata ai partecipanti, è vera come significato e va sottolineata, ma si tratta di una interpretazione successiva e non del senso originale del termine. Sarei contento se fossi riuscito a gettare un piccolo sasso nelle acque stagnanti per dare un po' di ossigeno, anche se sinceramente non ho molta fiducia di riuscirci, almeno stando alle reazioni avute finora. Ma ringrazio Dio che si è servito dei musulmani, di qualche prete e di qualche vescovo per suonarci la sveglia. Purtroppo possiamo mettere il silenziatore e continuare a poltrire al calduccio del letto. Io, con molta fatica, mi sono messo in piedi e cerco di non sprecare le poche ore di lavoro che il Signore mette a mia disposizione. Mi auguro di trovare qualche aiuto che condivida la "missione" che tutti abbiamo ricevuto, SE SIAMO ANDATI A MESSA!!!
EliminaMarilù Cianchi
RispondiEliminaDa tempo mi sono accorta che la maggior parte della gente va a messa x abitudine ma non x convinzione. Gli sguardi sono distratti, chi tamburella sulla panca forse seguendo un ritmo che ha in testa, i bambini giocano con le macchinine e i genitori stanno a guardare... La messa è diventata un rito che si segue distrattamente e si aspetta che finisca quanto prima. Il momento della comunione poi è diventato un arrembaggio. Chi arriva prima vince...? Insomma non c'è coinvolgimento tra i fedeli, dubito che si capisca fino in fondo che stiamo partecipando a qualcosa di grande, di intimo, di prezioso, del grande dono che Gesù ci ha fatto con l'eucaristia. Forse sono troppo retrò ma a me dispiace questo atteggiamento comune.
Marilù, non so se essere contento di quanto scrivi. Sono contento perché confermi le mie impressioni, ma sono molto dispiaciuto per la realtà che le ha causate. La superficialità con cui viviamo spesso il "mistero della fede" dovrebbe preoccupare tutti i credenti, mentre invece sembra che non ci si faccia caso. Non siamo i primi a denunciare l'inflazione delle "messe" che è una delle cause dell'indifferenza con cui vengono celebrate e partecipate. Se la riduciamo al rango di cerimonia a prevalente valenza sociale è giustificata la presenza di chiunque voglia essere presente per qualsiasi motivo. Ma dobbiamo chiederci se era proprio questa l'intenzione di Gesù. Penso sia doveroso fare la stessa domanda di fronte a certe "messe spettacolo" che corrono il rischio di comunicare un'idea piuttosto distorta di ciò che Gesù ci ha lasciato di più prezioso. Con questo non voglio assolutamente rimpiangere le funzioni tristi, funeree, noiose che allontanavano la gente e gettavano un'ombra sulla gioia che invece dovrebbe animare l'incontro con il Salvatore. Ma forse il chiasso non è l'unico modo per manifestare la gioia. Sarà mai possibile arrivare ad un giusto equilibrio? Forse discutere e ragionare un po' di più tutti insieme senza accuse reciproche potrebbe aiutarci a vivere l'incontro con Cristo in modo più autentico, ricordando che da qualche parte sta scritto che la verità ci farà liberi.
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