IL FARISEO PREGAVA BA
‘AMIDAH
Per tanti anni ho visto anch’io quello che
vedevano tutti leggendo e commentando la
parabola di Gesù riportata dal vangelo
di Luca 18,9-14. I due protagonisti del racconto sono un fariseo e un
pubblicano descritti in un momento di preghiera. I commentatori hanno sempre
evidenziato gli atteggiamenti dei due e il contenuto delle loro preghiere da un
punto di vista moralistico con l’intento di trarne un insegnamento per la vita
dei cristiani. In questa prospettiva lo “stare in piedi” del fariseo era
interpretato come espressione del superbo che non vuole piegarsi di fronte a
Dio. A lui si opponeva il pubblicano, descritto con gli occhi bassi e ripiegato
su se stesso in segno di sottomissione a Dio. A volte si andava oltre a
quanto scritto nel vangelo, presentando il fariseo come espressione di una classe sociale di ricchi a cui si contrapponeva il pubblicano. Non si aveva il coraggio di definirlo povero ma i pittori lo lasciavano intuire rivestendolo di abiti modesti di fronte a quelli sfarzosi indossati dal fariseo. Il fatto che il pubblicano si fosse “fermato a distanza” era interpretato come segno di rispetto per la presenza di Dio nell’arca dell’alleanza collocata, si spiegava, al centro del tempio!
quanto scritto nel vangelo, presentando il fariseo come espressione di una classe sociale di ricchi a cui si contrapponeva il pubblicano. Non si aveva il coraggio di definirlo povero ma i pittori lo lasciavano intuire rivestendolo di abiti modesti di fronte a quelli sfarzosi indossati dal fariseo. Il fatto che il pubblicano si fosse “fermato a distanza” era interpretato come segno di rispetto per la presenza di Dio nell’arca dell’alleanza collocata, si spiegava, al centro del tempio!
La chiave di lettura: la lingua ebraica
Non so quante volte ho letto questa parabola
interpretandola come tutti senza pormi particolari problemi: sembrava tutto
così ovvio! Però la settimana scorsa mentre preparavo l’omelia per la domenica
successiva mi è capitato di tradurre mentalmente in ebraico il verbo greco stathéis
“stando in piedi” con: ba ‘amidah. Non so perché l’ho fatto, forse avevo
letto qualcosa in precedenza dove ricorreva la stessa espressione. Resta il
fatto che quella parola ‘amidah mi
si è associata mentalmente al titolo dato dai rabbini a quella che viene
definita “la preghiera” per antonomasia, cioè la recita delle “diciotto
benedizioni” shemoneh ‘esreh. Aprire il siddur, il libro di
preghiere degli ebrei, per rileggere il testo della ‘amidah con le
rubriche e le spiegazioni sulle modalità con cui devono essere recitate le
benedizioni è stato un gesto automatico dettato più che altro dalla curiosità.
Ma intanto avevo capito perché il fariseo stava
in piedi, perché pregava a voce bassa, come se parlasse con se stesso o, per
dirlo in ebraico, be libbò nel suo cuore. Mi era chiaro, finalmente,
perché il pubblicano si era fermato a distanza dal fariseo (e non dall’arca
dell’alleanza, scomparsa ormai già da alcuni secoli!). Lo aveva letto nel siddur
che prescriveva il rispetto verso chi stava pregando in silenzio per non
disturbarlo nella sua concentrazione costringendolo così a ripetere la
preghiera da capo. Il particolare del fariseo che nota la presenza di un’altra
persona che individua come pubblicano e che giudica con disprezzo, assume una
valenza doppiamente negativa. Nonostante la preoccupazione del pubblicano di
non disturbare, il fariseo si distrae e si perde dietro considerazioni nate dai
suoi preconcetti.
E venendo alle parole pronunciate dai due
personaggi, quelle del pubblicano sintetizzano due benedizioni, la quinta (teshuvah
– ritorno [a Dio]) « Facci tornare, o Padre
nostro, alla Tua Legge e fa’ che restiamo attaccati ai Tuoi precetti. Facci
avvicinare, o nostro Re, al Tuo culto, e facci tornare con pentimento perfetto
alla Tua presenza » e la sesta (selichah – perdono) « Perdonaci,
Padre nostro, perché abbiamo peccato; assolvici, o nostro Re, perché ci siamo
ribellati. Tu infatti sei un Dio buono e che perdona ».
Al contrario, le molte parole dette
dal fariseo non hanno nessun riscontro nei testi delle diciotto benedizioni, se
non nell’ultima indicata come hoda’ah, ringraziamento, per le opere
compiute da Dio, mentre il fariseo ringrazia per quanto lui stesso ha fatto e
per quello che è o che crede di essere.
Il siddur alla prescrizione
della posizione eretta, aggiunge un particolare che a prima vista può sembrare
curioso: i piedi devono stare uniti. Penso che la vera motivazione sia quella
di favorire la concentrazione di chi prega. Riducendo la superficie di appoggio
a terra si creano problemi di equilibrio il che richiede una continua presenza
a se stessi. L’equilibrio del corpo dovrebbe favorire quello della mente così
da avere una visione della realtà più oggettiva, non condizionata da posizioni
di comodo.
La preghiera balebab, nel cuore, tra sé,
era un’eccezione alla prassi comune di una preghiera “gridata”. La
giustificazione del comportamento anomalo è indicata nella preghiera silenziosa
di Anna, la madre di Samuele rimproverata in modo brutale dal vecchio sacerdote
Eli.
Il fariseo rispettava la prescrizione
riguardante la voce sommessa, ma urlava balebab tutte le sue benemerenze
davanti a Dio, elencandole con pignoleria burocratica. Il pubblicano non ha niente
di cui vantarsi, non ha niente da nascondere, tutti sanno tutto di lui. Può
solo riconoscere la verità e affidarsi alla misericordia di Dio. Ed è quello
che fa.
È più comodo leggere “stando seduti” bayyeshibah
A mano a mano che leggevo il siddur e lo
confrontavo con il racconto di Luca, mi accorgevo che i due personaggi
prendevano sempre più corpo, assumevano uno spessore impensabile, come se si
presentassero finalmente in 3 D e in HD.
La ricostruzione dell’ambiente culturale e religioso restituiva la vita a due
figure diventate scialbe e contraddittorie per gli abiti che gli erano stati
cuciti addosso. Un’operazione anticulturale che aveva dell’incredibile.
Sono sceso in biblioteca e ho passato
rapidamente in rassegna le traduzioni e i commentari di Luca con la speranza di
trovare qualche appoggio alla lettura che avevo fatto di quel racconto.
Certamente la nostra biblioteca non possiede tutto ciò che è stato scritto nel
corso dei secoli sul vangelo di Luca ma offre una scelta di opere abbastanza
rappresentativa del livello comune degli studi sull’argomento. In nessuno avevo
trovato un riferimento alla ‘amidah per spiegare il comportamento dei
due personaggi del racconto lucano.
Finalmente in un commentario al vangelo di Luca
edito da Paideia nel 2007 si trova un cenno ad un possibile riferimento alla
preghiera ebraica delle diciotto benedizioni. A commento del verbo greco stathéis
la nota n. 8 dice: “La preghiera detta delle diciotto benedizioni è anche
chiamata Amidah, cioè preghiera da pronunciare in piedi. Viene recitata
in piedi, in silenzio, a talloni uniti. Ringrazio il collega (…) per queste
informazioni”. Trovo sorprendente che il commentatore di Luca senta il dovere
di ringraziare il collega per quelle che definisce “informazioni”, come se si
trattasse di notizie riservate scambiate tra agenti dei servizi segreti. Invece
bastava aprire il siddur e avrebbe trovato tutte le
informazioni
desiderate e tanto altro ancora. Ma il nostro commentatore, molto preparato
nell’analisi tecnica del testo, non era veramente interessato alle informazioni
del collega. Infatti le ignora completamente nel suo commento che procede
imperterrito sulle linee interpretative tradizionali.
Avevo cercato qualche punto di appoggio,
qualche sostegno al mio ingresso nella ‘amidah e invece mi ritrovavo
solo con quei due personaggi, in piedi accanto a loro. E dovevo decidere con
chi stare, ora che li avevo conosciuti per quello che erano veramente al di là
delle maschere che erano state loro
imposte. Stavo sperimentando che cosa significava quello stare ritto sui due
piedi congiunti, alla ricerca di un equilibrio da ritrovare continuamente. E ho
provato anche il rimpianto per la comodità della poltrona dove adagiarsi senza
troppi problemi e dove ci si può permettere anche di addormentarsi senza
correre il pericolo di finire a terra.
Guardare se stessi, gli altri, il mondo, lo
stesso Dio da una posizione eretta, costringe a dare valore e sfruttare tutte le occasioni che la vita
offre. Ma oltre a questo insegnamento non da poco mi pare che vada evidenziata
l’ambientazione della scena fatta da Gesù e conservata scrupolosamente da Luca nel
suo racconto. Un’analisi più approfondita dei particolari potrebbe portare a
conclusioni interessanti anche di carattere esegetico finora sfuggite agli
studiosi.
Una lettura del brano di Luca veramente interessante.Grazie,P.Giovanni!
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