VACCHE MAGRE E
VACCHE GRASSE
Tra gli Ebrei questi eventi erano
interpretati come una risposta del loro Dio ai comportamenti del popolo. Questo
modo di spiegare i fenomeni naturali era comune in tutte le religioni ma per
gli Ebrei si distingueva per il legame con quella che era presentata come
l’alleanza, cioè il patto stabilito da Dio con Mosè. Se il popolo “stava ai
patti” era premiato da Dio con la prosperità e l’abbondanza: era in pace, Shalom.
Se veniva meno agli impegni assunti scattava automaticamente la punizione
minacciata.
I profeti si presentano al popolo come
gli ispettori con l’incarico di verificare la conformità della vita dei loro
contemporanei con gli impegni assunti nell’alleanza con Dio. Si identificano
talmente con il compito che sentono di aver ricevuto, da parlare in prima
persona come se fossero lo stesso Dio. Questo accorgimento letterario rende
spesso i loro interventi appassionati e coinvolgenti. Mi pare significativo un
intervento del profeta Amos vissuto nell’VIII secolo a. C. La sua vicenda tocca
anche il tema dell’immigrazione. Infatti il profeta, originario del sud di
Israele, proclama i suoi messaggi nel nord dove è ritenuto un estraneo e viene
invitato senza mezzi termini a ritornare nel suo paese di origine.
In occasione di una delle tante carestie, Amos dà voce a
Dio interpretando gli avvenimenti alla luce della fede con una descrizione
assolutamente realistica scandita in quattro momenti dal rimprovero: “non siete
ritornati a me”. Carestie, pestilenze e guerre non sono presentate come la
vendetta di una divinità irosa ma come una sterzata violenta che avrebbe dovuto
riportare il popolo sulla strada giusta.
“6«Eppure, vi ho lasciato a denti asciutti
in tutte le vostre città,
e con mancanza di pane
in tutti i vostri villaggi;
ma non siete ritornati a me».
Oracolo del Signore.
7«Vi ho pure rifiutato la pioggia
tre mesi prima della
mietitura,
facevo piovere sopra una
città
e non sopra l’altra;
un campo era bagnato di
pioggia,
mentre l’altro, su cui non
pioveva, seccava.
8Due, tre città andavano barcollanti
senza potersi dissetare;
ma non siete ritornati a me».
Oracolo del Signore.
9«Vi ho colpiti con ruggine e carbonchio,
vi ho inaridito i giardini e
le vigne;
i fichi e gli olivi li ha
divorati la cavalletta;
ma non siete ritornati a me».
Oracolo del Signore.
10«Ho mandato contro di voi la peste,
come un tempo contro
l’Egitto,
ho ucciso di spada i vostri
giovani,
mentre i vostri cavalli
diventavano preda;
ho fatto salire il fetore
dai vostri campi
fino alle vostre narici;
ma non siete ritornati a me».
Oracolo del Signore.” (Amos
4,6-10).
Evidentemente il profeta non aveva peli
sulla lingua e questo può spiegare perché desse fastidio a molti. La citazione
è molto lunga e va contro le “regole” della comunicazione moderna. Ma cosa
eliminare da questo testo di Amos per renderlo “gradevole” ai nostri palati
delicati? Le immagini usate descrivono il dramma della siccità e della carestia
in modo impareggiabile. Amos riesce ad infilare tutti i drammi correlati tra di
loro a partire dalla siccità per arrivare alla peste e alla spada fino al
fetore dei cadaveri insepolti che entra nelle narici. Non manca l’ironia
corrosiva che apre l’elenco con la battuta sui denti che sembra preludere le
nostre preoccupazioni per l’igiene dentale. Il testo ebraico all’inizio del v.
6 dice: “vi ho dato la pulizia dei denti”. Grande! Una pagina che merita di
essere letta e riletta, non per il gusto del macabro ma per apprezzare la forza
delle immagini e per l’interpretazione religiosa data dal profeta.
Le vacche magre ingrassano i ricchi
Nel post precedente avevamo visto il
degrado dal fare provviste per sopravvivere al fare la guerra per motivi di
potere. Amos denuncia un altro aspetto dell’imbarbarimento dei rapporti, non
più tra popoli diversi ma all’interno dello stesso popolo. La distinzione tra
classi sociali accentuata con l’introduzione della monarchia (1 Samuele
8,10-18) aveva creato un piccolo gruppo di ricchi contrapposto alla maggioranza
composta prevalentemente da poveri. Questa situazione di squilibrio sociale
poteva essere tollerabile in condizioni normali ma diventava esplosiva quando i
poveri non avevano più nulla da mangiare mentre i ricchi avevano ancora
provviste nelle loro dispense.
Era cosa naturale per i poveri affamati
cercare un aiuto a due passi da casa prima di rivolgersi a gente estranea. Si
poteva contare sulla vicinanza fisica ma anche su di una solidarietà fondata
sull’appartenenza allo stesso popolo. Chi aveva ancora scorte alimentari era
anche disposto a condividerle ma senza correre troppi rischi. Capitava così che
le poche risorse economiche dei poveri finivano nelle casse dei ricchi che
studiavano ogni mezzo, lecito o no, per trarre un vantaggio dalla situazione di
emergenza.
Amos denuncia la classe dirigente che
aumenta le proprie ricchezze racimolando in modo subdolo denaro e piccole
proprietà dalle mani dei poveri per poi sperperarle in banchetti e in un lusso
sfrenato per soddisfare capricci e vanità delle proprie donne (Amos
2,6-8; 3,15-4,1; 5,11-12; 6,4-6; 8,4-6). Il quadro è desolante e purtroppo non
è l’unico dello stesso tipo delineato nella Bibbia.
“Dateci il grano perché possiamo
mangiare e vivere!”
La richiesta è esplicita ed è definita
“un grande lamento da parte della gente del popolo” (Neemia 5,1). Sono
passati tre secoli dalle invettive di Amos contro gli sfruttatori dei propri
concittadini da parte delle autorità. Chi richiede il cibo sono gli Ebrei
ritornati a Gerusalemme dall’esilio a Babilonia e che avrebbero dovuto
ricostruire la città. Si tratta di un’opera pubblica di interesse nazionale e
quindi ci aspetteremmo un piano finanziario adeguato. Invece tutti i lavori
sono bloccati.
Lo viene a sapere un certo Neemia,
discendente da una famiglia di Ebrei deportati che non erano ritornati a
Gerusalemme. Costui aveva fatto carriera in quello che ormai era diventato
l’impero persiano, ma aveva sempre mantenuto un legame affettivo per la patria
d’origine. Venuto a conoscenza delle condizioni precarie in cui si trovavano i
Giudei, ottiene dal re Artaserse
l’incarico di organizzare i lavori di ricostruzione della città. Naturalmente
l’arrivo di un estraneo con un incarico così importante non è ben visto dalle
autorità locali che lo osteggiano in tutti i modi.
Non possiamo seguire tutte le vicende
narrate come in un diario nel libro omonimo. Ci fermeremo solo su come Neemia
sia riuscito a superare lo sfruttamento vergognoso del popolo da parte di coloro
che aveva incaricato di dirigere i lavori. I lavoratori erano costretti ad impegnare
campi, vigne e case in cambio di cibo durante la carestia (5,3). Per pagare le
tasse al governo centrale avevano dovuto ipotecare i loro beni (5,4).
Addirittura erano arrivati al punto di vendere come schiavi i propri figli ai
responsabili dei lavori che pure erano Giudei come loro e si dichiaravano
fratelli (5,5).
L’intervento di Neemia è molto fermo. La
sua denuncia si fonda su un ragionamento umano (5,6-8) confrontato e
convalidato con la motivazione religiosa (5,9.12-13). Il risultato ottenuto è
stata la restituzione dei pegni e la remissione volontaria di tutti i debiti. In
questa vicenda, che sembra raccontata in presa diretta per la vivacità della
narrazione, si intrecciano molti temi che riguardano la fede religiosa, la
politica, la sociologia, l’economia, l’identità nazionale. Quest’ultima avrà un
risvolto xenofobo di intolleranza nelle battute finali del libro
(13,1-3.23-28), dove il protagonista si sente costretto a maledire, picchiare e
strappare i capelli (13,25) a chi favoriva rapporti amichevoli con gli
stranieri.
Un idealista deluso
Neemia (Nechemyah = YHWH consola)
è un personaggio complesso, forse un po’ snobbato dai commentatori della Bibbia
che sembrano interessati unicamente ai capitoli 8 e 9. Certamente non è agevole
impostare una Lectio divina su testi che si presentano come elenchi
anagrafici (cap. 11) o liste delle ditte appaltatrici dei lavori di
ricostruzione delle mura (cap. 3) o ancora come resoconto di intrighi loschi
contro i Giudei (cap. 4). Eppure sono testi che aprono delle finestre sulla
vita reale nella sua banalità, con le sue miserie, con gli entusiasmi e le delusioni.
Trovo commovente le descrizione degli operai che con una mano lavorano e con
l’altra impugnano la spada per difendersi dagli attacchi dei nemici (4,10-17).
Sono sostenuti da una certezza: “Dio combatterà per noi” (4,14) ma intanto si
organizzano di tutto punto come se la salvezza dipendesse unicamente da loro.
Ma noi cerchiamo spasmodicamente l’intervento
straordinario di Dio per motivi di comodo, mascherato maldestramente da fiducia
nella Provvidenza. Preghiamo Dio perché intervenga aprendoci davanti le acque
del mare per farci passare all’asciutto e aspettiamo che ci mandi la manna o le
quaglie, pronti anche a lamentarci perché non sono spennate e dobbiamo
arrostirle dopo aver anche dovuto accendere il fuoco. Pretendiamo il servizio
completo ma questo non rientra nei piani di Dio che ci vuole protagonisti della
costruzione di un mondo giusto perché ci ritiene capaci di farlo. Dio si fida
di noi nonostante le nostre pigrizie e incongruenze.
Nel nostro libro troviamo impastati
tutti questi ingredienti che ci offrono uno spaccato della vita reale di un
certo periodo della storia di Israele. Neemia è Giudeo di famiglia ma cresciuto
alla corte persiana. È legato alle sue origini ma ne denuncia i limiti che
cerca di superare non con belle teorie ma con l’impegno personale, pagando di
tasca propria (5,14-19).
Tanto impegno sembrava aver prodotto i
suoi frutti tanto che Neemia fece ritorno nella capitale dell’impero persiano
convinto di aver sistemato tutto per il meglio.
Invece erano riaffiorati gli interessi personali, i favoritismi. Neemia
ritornò a Gerusalemme per costatare il fallimento, almeno in parte, delle sue
riforme. Non si trattava di questioni teoriche o di discussioni teologiche. Semplicemente
“le porzioni dovute ai leviti non erano state date” (13,10) e il grande
riformatore fu costretto a riorganizzare la raccolta “del frumento, del vino e
dell’olio” (13,13) affidandone la distribuzione “a uomini fedeli” (13,13).
Anche la mancata osservanza del riposo
del sabato è descritta nei suoi aspetti più commerciali e organizzativi. La
stessa attenzione alla concretezza è data ai rapporti con le popolazioni
straniere che, come abbiamo visto, spinge “l’uomo venuto da lontano” su
posizioni xenofobe.
Concludo con un’osservazione
interlocutoria sull’insieme dei libri che compongono la nostra Bibbia: è perfetta nel
descrivere una società imperfetta. È il risultato sorprendente del lavoro
di intere generazioni che ci hanno narrato le loro esperienze, i loro sogni, le
speranze, le delusioni, la loro fiducia in un Dio che nessuno ha mai visto, un
Dio così umano e così diverso, un Dio che accetta le contestazioni e che affida
all’uomo tutto se stesso nella vita quotidiana, che può essere riscattata dalla
banalità solo se riconosce e accetta la sua presenza.
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