Presentare il libro di Giona in dieci minuti
è un’impresa impossibile. Do per scontata la conoscenza del racconto e mi
limiterò ad alcune considerazioni attinenti al tema proposto. Ricordo solo alcune
coordinate che possono aiutarci a inquadrare la vicenda nell’ambiente culturale
in cui è stata pensata.
Ninive, capitale dell’Assiria, è stata distrutta
nel 612 a .
C. Nell’immaginario collettivo di allora rappresentava “il nemico” per
antonomasia, odiato a causa della crudeltà contro i vinti.
Giona, protagonista del libro omonimo, è il nome
di un profeta vissuto nell’VIII secolo a. C. nel regno di Israele. Si dice solo
che esorta il re Geroboamo II a ricuperare dei territori ritenuti parte del suo
regno.
In Israele vi erano due correnti di pensiero
nei confronti degli altri popoli.
·
Rifiuto di contatti e di collaborazione
per difendere i propri privilegi ricevuti da Dio (Baruc 4,3). Orgoglio
nazionale.
·
Apertura alla convivenza pacifica (anche se
per opportunismo), fino a pregare per i nemici (Geremia 29,7)
All’interno di Israele queste due posizioni
si confrontavano a viso aperto fino ad arrivare allo scontro fisico. Negli anni
successivi al ritorno in Giudea degli Ebrei deportati a Babilonia, queste
tensioni si erano acuite.
L’esilio aveva costretto ad una revisione
radicale delle motivazioni su cui si reggeva l’idea di un popolo diverso dagli
altri per una scelta operata da Dio. La sudditanza ai babilonesi poteva far
pensare ad una superiorità di Bel o Marduk sul Dio di Israele che si era
dimostrato incapace di difendere il popolo che si era scelto. L’interpretazione
degli avvenimenti militari e politici data dai profeti di quel periodo andava
in senso contrario e attribuiva a YHWH la regia di quanto accaduto: era il Dio
di Israele che guidava i nemici alla vittoria per punire i suoi peccati.
Gli esuli a Babilonia consideravano la loro
situazione come quella dei morti chiusi nei sepolcri dai quali nessuno sarebbe
mai uscito (Ezechiele 37). La condizione degli ebrei del regno del Nord
deportati dagli Assiri e dispersi nell’alta Mesopotamia nel 722, rafforzava
questa convinzione.
Però la possibilità, insperata, di ritornare
in patria aveva confermato le parole di Geremia, di Ezechiele e del discepolo
di Isaia (a cui attribuiamo la parte centrale del libro omonimo: il cosiddetto
Deutero Isaia) ma aveva anche consolidato nei reduci dall’esilio, la
convinzione di doversi astenere da ogni contatto con le altre popolazioni, cosa
che era considerata la causa di ogni male.
I testi biblici che descrivono questo periodo
(Esdra, Neemia, Aggeo, Zaccaria) riportano episodi dettati da intolleranza
autentica da parte di gruppi di ebrei nei confronti di chi aveva un’altra
cultura. Una sola citazione che ci restituisce il clima agitato di quegli anni:
“… alcuni Giudei si erano ammogliati con donne di Asdod (…) la metà dei loro
figli parlava l’asdodeo (…) non sapeva parlare giudaico. Io li rimproverai, li
maledissi, ne picchiai alcuni, strappai loro i capelli” (Neemia 13,23-25).
I profeti vissuti prima dell’esilio erano
stati molto severi nel condannare i rapporti con le nazioni straniere. Ma la
motivazione era unicamente di carattere religioso, cioè il pericolo di seguire
i culti idolatrici abbandonando la fede in YHWH il Dio di Israele.
Uno dei più rigidi sostenitori del monoteismo
yahvista è stato certamente Geremia che però dimostrava un pragmatismo
incredibile e un intuito politico straordinario. La sua simpatia verso i
babilonesi, accentuata dal rifiuto deciso di alleanze con l‘Egitto, era ben
nota non solo a Gerusalemme, tanto da procurargli ripetuti arresti per sospetto
tradimento, fino a mettere in pericolo la sua stessa vita. Per il profeta di
Anatot la fedeltà a YHWH poteva coesistere con l’ammirazione verso gli
stranieri, nonostante riconoscesse il loro errore nel credere in divinità
considerate inesistenti. La sua apertura agli altri venne ricambiata in alcune
occasioni e lo salvò dalla deportazione a Babilonia mentre invece gli causò un
esilio forzato proprio in Egitto dove venne costretto ad andare dai Giudei.
È difficile per noi ricostruire con esattezza
gli avvenimenti che hanno dato origine a questi racconti. Però la convergenza degli
indizi narrativi ci fornisce un quadro convincente del clima di tensione che ha
contrassegnato la vita di Israele nel corso di alcuni secoli incentrati sulla
distruzione di Gerusalemme, la perdita della libertà e della patria, la fatica
di una ricostruzione mai giunta a compimento.
Sembra questo l’ambiente in cui è nato il
libro di Giona che presenta e drammatizza senza sconti le tematiche che abbiamo
visto. L’Ebreo autore di Giona interviene nel dibattito prendendo una posizione
netta in favore del gruppo che sosteneva l’apertura verso gli stranieri e
condannando con decisione il partito fautore di un atteggiamento xenofobo
nascosto dietro la maschera di una religiosità intollerante verso il diverso.
Non nego che la mia lettura possa essere
stata influenzata anche dagli ultimi atti di terrorismo. Però mi sembra
evidente nel libro di Giona una satira feroce contro il protagonista, descritto
con tutte le caratteristiche che solitamente si attribuiscono a personaggi
presuntuosi, gretti, egoisti, gelosi dei propri privilegi, animati da
pregiudizi che non risparmiano nemmeno quel Dio che dicono di adorare ma che in
realtà contestano stizziti quando rivolge le sue attenzioni a qualcun altro.
Le due posizioni in lotta tra di loro sono
rappresentate dai due protagonisti del racconto. In Dio, l’autore descrive il
regista di una storia di salvezza che riguarda tutti i popoli e che si deve
realizzare grazie all’opera di Israele. Giona incarna il partito xenofobo che
rifiuta di ottemperare al compito che Dio gli aveva affidato.
Il racconto si apre con naturalezza, come per
continuare un dialogo familiare. Dio si rivolge a Giona affidandogli un
incarico di fiducia. Gli altri profeti in situazioni analoghe rispondevano
subito con il classico “hinneni” “eccomi” per indicare la loro disponibilità. Il
nostro invece, non dice una parola, nemmeno una formula convenzionale, noi
diremmo un “ricevuto”, come se non avesse nemmeno sentito. Si comporta da
maleducato. Semplicemente si muove in direzione opposta (“lontano dal Signore”
precisa il testo) a quella indicatagli da Dio. E paga pure di tasca propria il
biglietto di viaggio, forse pensando di aver acquisito così il diritto di
dormire durante la terribile tempesta che vede i marinai, impegnati allo
spasimo, sacrificare tutti i loro beni per salvare la vita.
Stupisce lo scatto di altruismo attribuito al
profeta che si offre vittima volontaria per calmare l’ira del proprio Dio. Si
tratta forse dell’anticipazione di quanto dirà verso la fine del racconto
riguardo alla misericordia di Dio? O piuttosto dobbiamo vedervi una costante
del carattere che l’autore gli attribuisce, facendogli ripetere ancora per tre
volte, nel seguito del racconto, il desiderio di morire?
La richiesta di essere gettato in mare
sarebbe allora da inserire nella logica del rifiuto di obbedire all’ordine di
Dio: “È meglio farla finita subito” sembra voler dire il ribelle. Così si
spiegherebbe il particolare grottesco del mostro marino che lo ingoia ma poi vomita
il boccone, dopo averlo tenuto nello stomaco per tre giorni, senza riuscire a
digerirlo. Qui la satira diventa corrosiva e raggiunge il risultato che non
erano riusciti ad ottenere i succhi gastrici del mostro mitico. Sublime!
Ma è ancora più straordinario il significato
che l’autore attribuisce a questo salvataggio. Il popolo scelto da Dio può
anche vivere dei momenti tragici che minacciano di farlo sparire, ma Dio non
cambia i progetti che ha fatto su di lui.
Un altro particolare non va trascurato. I
marinai, stranieri e idolatri, anche dopo aver conosciuto la causa che ha
scatenato la tempesta fanno ogni sforzo per non buttare a mare il colpevole,
reo confesso. Quando poi lo fanno, si sentono in colpa e chiedono perdono a
Dio, pregano e offrono sacrifici di ringraziamento dopo il salvataggio. Giona invece
si limita ad esporre la propria fede e l’unica preghiera che l’autore gli mette
sulle labbra proviene dal ventre del mostro marino con formule impersonali.
Gli unici sentimenti manifestati dal profeta
in tutto il racconto, rivelano dispetto, stizza, rabbia, sdegno, invidia fino a
raggiungere la sfrontatezza di rimproverare Dio per la misericordia dimostrata
verso l’odiato nemico.
Anche alla seconda chiamata di Dio non segue
un “eccomi” dettato almeno da buona educazione. Però questa volta Giona va
nella direzione che gli è indicata. Ha cambiato atteggiamento? No, ci dice
l’autore. Infatti la prima volta Dio gli aveva specificato il contenuto
dell’annuncio che avrebbe dovuto dare: la denuncia della malvagità dei niniviti
che lasciava intravedere la volontà di perdono da parte di Dio, inaccettabile
da parte del profeta. Questa volta invece, Dio è più prudente: “Annuncia loro
quanto ti dirò”. Giona parte, forse sperando che i progetti di Dio finalmente
coincidano con i propri.
Infatti l’autore lascia trasparire la
soddisfazione del profeta che finalmente può proclamare ad alta voce, per
ordine del suo Dio, quello che era il suo più grande desiderio: “Ninive sarà
distrutta!”.
E invece… accade proprio quello che temeva:
Dio perdona gli odiati nemici. La reazione del profeta è coerente con il
carattere che gli è stato cucito addosso dal nostro autore. È indignato, indispettito,
rabbioso perché i suoi timori si sono realizzati. “Lo sapevo che andava a
finire così” si potrebbe tradurre lo sfogo di Giona. Il suo tentativo di fuga a
Tarsis era per impedire a Dio di compiere quello sbaglio. Lo sapeva bene che il
suo Dio si sarebbe lasciato commuovere dalle suppliche di quei criminali e
questo era ingiusto, insopportabile per una persona dabbene come Giona che
aveva idee chiare e convinzioni profonde.
Il suo mondo gli era crollato addosso: era
meglio morire. Quando perde anche il piccolo sollievo che gli procurava l’ombra
del qiqayon, il profeta non ha più nessun interesse per la propria vita. Dio
invece continua a preoccuparsi per la vita di tanti uomini. Come? Il racconto
non lo dice.
Notiamo che il Dio conosciuto da Giona ha le
stesse qualità che gli riconosce l’autore del racconto. Con altre parole, le
due posizioni contrapposte sanno che la misericordia è la caratteristica che
distingue YHWH dagli idoli delle nazioni straniere. Però l’autore accetta che
Dio manifesti la sua bontà verso tutti, anche verso i nemici del suo popolo,
mentre Giona (e quelli che rappresenta) rifiuta con rabbia palese l’idea di un
Dio che si lascia intenerire dal pianto dei suoi figli.
Penso che Giona si sarebbe rallegrato
leggendo lo scritto del profeta Naum che descrive compiaciuto in tono epico la
distruzione dell’odiata città. Avrebbe gioito ancora di più camminando tra le
rovine di Ninive, rovinate un’altra volta dalle distruzioni di questi giorni. È
questa l’eredità che ci ha lasciato la storia, che sembra soddisfare le
aspettative del profeta ribelle che voleva dare lezioni a Dio.
Ma la storia ci sforna anche dei cloni
perfettamente funzionanti e affetti da quella che papa Francesco ha chiamato “sindrome
di Giona” (omelia di Lunedì, 14 ottobre 2013). Persone
convinte “di
avere le idee chiare: «La dottrina è questa, si deve credere questo. Se loro
sono peccatori, si arrangino; io non c’entro! Questa è la sindrome di Giona»”.
Il
movimento ecumenico vuole evitare il contagio virale che può essere provocato
da questa sindrome che purtroppo non è prerogativa di ambienti cristiani o
ebraici ma si sviluppa rapidamente in tanti ceppi diversi per cultura,
religione, lingua, comportamenti. Sapere che anche in passato i nostri antenati
hanno sperimentato tutte le difficoltà di un dialogo sereno può aiutare a
superare gli ostacoli che si frappongono all’accettazione del diverso. Il
contrasto in sostituzione del confronto, non è un prodotto recente e
circoscritto. È stato illustrato magistralmente da un autore ebreo anonimo, vissuto
cinquecento anni prima dell’inizio della nostra era.
Giovanni
Boggio
P. Giovanni Boggio e p.
Agostino Montan ad una porta di NINIVE
08/07/1995
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