C’era
da aspettarselo. È andato tutto secondo
copione. A partire dalla curiosità suscitata dall’evento pubblicizzato come
pochi altri, alla risposta dei telespettatori superiore ad ogni più rosea
previsione, dai commenti entusiasti di gerarchie ecclesiastiche alle critiche
astiose di ambienti anticlericali o benpensanti, dalla non celata soddisfazione
di dirigenti RAI per i dati dell’Auditel al compenso dato al giullare, ritenuto
da molti scandaloso e da altri addirittura inferiore al dovuto. Visto che 4
milioni di euro versati a Benigni, divisi per 10 milioni di spettatori
dichiarati, riducono la spesa pro capite a soli 40 centesimi di euro, non
sembra davvero così esagerato il costo di una trasmissione che ha risparmiato
drasticamente sulla scenografia, ridotta all’osso.
È l’unico metodo valido per capire e apprezzare l’insegnamento che Dio ha voluto darci nelle pagine della Bibbia. Anche senza tuoni e lampi ma con parole che chiedono solo di essere capite e amate per diventare luce e guida della nostra vita.
Ma
veniamo alla trasmissione. Mi pare che la soddisfazione compiaciuta di certi
ambienti religiosi, che l’hanno interpretata come una testimonianza di fede,
quasi una “conversione” di un comico spesso dissacrante, sia del tutto fuori
luogo. Si è trattato di uno spettacolo straordinario basato quasi unicamente
sulla parola con la rinuncia quasi totale degli elementi sui quali sono
costruite le trasmissioni televisive. La vera protagonista è stata la parola,
ma attenzione, una parola alla quale l’interprete ha saputo dare tutta la forza
che le è propria. Ed è riuscito a comunicarla a chi, forse per la prima volta,
la sentiva come qualcosa di vivo e non come ripetizione stanca e insipida di
cose risapute.
Penso
che sia stato questo il vero merito di Benigni. Si è immedesimato nella parte,
l’ha condivisa e l’ha comunicata in modo convincente e coinvolgente. Tanto da
farla apparire una testimonianza di fede a spettatori che desideravano proprio
questo. Ma è stata soltanto una “rappresentazione” della fede, cioè di quello
che dovrebbe essere l’atteggiamento del credente di fronte ad una parola che in
se stessa è sconvolgente. È questa la bravura di un attore: la capacità di
rivivere, e far rivivere, ad ogni spettacolo il messaggio contenuto nel testo
che interpreta. Non gli si chiede di credere, ma di far capire che cosa
significa credere. E non è poco.
Da
un annunciatore della fede, da un “predicatore”, invece ci si aspetta
giustamente una “testimonianza” di vita e una coerenza di comportamenti, al di
là del momento dell’annuncio. Ma penso che anche il predicatore non possa fare
a meno della dote caratteristica dell’attore, cioè la capacità di comunicare,
di far vivere la parola, di far emergere la ricchezza di messaggi che vuole
trasmettere. Se non è così, il predicatore uccide la parola: è un assassino! Va
contro il comandamento che dice:
NON
UCCIDERE!
Quando
ho sentito annunciare il “quinto” comandamento non sono sobbalzato sulla sedia,
solo perché me lo aspettavo. Dico subito che la responsabilità
dell’interpretazione non è di Benigni ma degli autori a cui si è ispirato. L’enunciazione
tradizionale “Non uccidere” estende l’ambito dei comportamenti ad ogni azione
che abbia come fine l’eliminazione della vita. Ma non è questo il significato
del comandamento nel testo della Bibbia, che invece si riferisce ad un’azione
ben specificata e delimitata, cioè “l’uccisione di un innocente”. Noi diremmo
“un assassinio”. È questo il significato del verbo ebraico “ratsach” che viene
usato nelle varie forme 49 volte nella Bibbia ebraica. Spesso viene associato
alla pena inflitta a chi ha ucciso un innocente: la pena di morte!
È
importante notare che quando si parla della pena di morte si usa un altro
verbo, dal significato più generico (far morire = forma causativa del verbo
morire) mentre per indicare l’uccisore è sempre usato il verbo che troviamo nel
decalogo. Così in Numeri 35,19 si legge: “È il vendicatore del
sangue che farà morire l’assassino: quando lo incontrerà, lo farà morire” in
applicazione della “legge del talione” che prevedeva il principio: “vita al
posto di vita” (Esodo 21,23). Per indicare altri modi di dare la morte si usano
espressioni diverse, come “passare a fil di spada”, “lapidare”, “votare allo
sterminio”, o si ricorre ad altri verbi dal significato generico (Giosuè 8,24
“harag”), tutte azioni ritenute non solo lecite ma addirittura doverose quando
sono l’esecuzione di un ordine dato da Dio. Quindi per concludere si potrebbe
dire che il comandamento espresso con quel verbo particolare “ratsach” difende
la vita degli innocenti ma esige l’uccisione dell’assassino. Potrà anche
dispiacere a chi è imbevuto della cultura imperante e che forse sperava di
trovare nella Bibbia l’avallo delle sue idee. Ma la Bibbia va spiegata e capita
per quello che effettivamente insegna e non può essere manipolata nemmeno per
giustificare le cause più nobili,
Mi ha sorpreso (ma non più di tanto!)
che in questa estensione di significato attribuito al comandamento che impone
il rispetto della vita non si sia sentita una parola che indica l’uccisione di
un essere umano che più innocente non si può: l’aborto. Sarà perché la nostra società lo ha derubricato
classificandolo come asportazione con mezzi chimici o chirurgici di una
escrescenza anomala della parete dell’utero. Definirlo “assassinio” è giudicato
una provocazione dettata da fanatismo religioso, rigurgito di una mentalità
ottusa oggi felicemente superata. Sia ben chiaro che con questo non dico
assolutamente che il comandamento proibisca direttamente l’aborto. Si parla di
altro, ma se si vuole spiegare un testo si deve prenderlo per quello che è non
per quello che ci fa comodo. Come nel caso del comandamento che segue:
NON
COMMETTERE ADULTERIO
Che
sia questo l’oggetto del comandamento, è risaputo. Me l’hanno insegnato nel
corso di esegesi negli anni ’50 del secolo scorso, l’ho ripetuto per
quarant’anni quando è toccato a me insegnarlo. È innegabile che le diverse
formulazioni inventate dai catechisti rivelavano un certo imbarazzo nel presentare
ai ragazzi una situazione che non li riguardava. Al contrario la vita sessuale,
a cui gli adolescenti erano tanto interessati, sembrava non avere nessuna
importanza per la legge di Dio. Probabilmente i moralisti hanno pensato: “Per
quale motivo un uomo vuole avere per sé la moglie di un altro? Per giocare a
carte? Per avere una cuoca migliore? O per fare certi giochini che gli adulti
hanno riservato a sé proibendoli ai ragazzi?”.
E
allora hanno “esteso” la motivazione che sta alla base del comandamento a tutto
ciò che può portare l’uomo a “rubare” ad un altro quello che gli era più caro:
la sua donna. Se si controlla la sfera sessuale – devono aver pensato i
moralisti – si elimina alla radice la causa che porta all’adulterio. Tutto qui.
Niente macchinazioni segrete ma solo, se vogliamo, pigrizia intellettuale nel
cercare la strada più facile da praticare per raggiungere un fine nobile.
Peccato che ciò abbia comportato la non conoscenza della Bibbia, addomesticata
a rispondere a domande non pertinenti. Con le conseguenze disastrose che
sperimentiamo.
Non
so se è chiaro che la chiesa cattolica (è di questa che sparlava Benigni) ha
anticipato il metodo usato dalla cultura contemporanea nei riguardi del “non
uccidere”. Da un caso particolare ben specificato si è allargata l’applicazione
a situazioni che sono oggetto di leggi molto dettagliate presenti nella Bibbia
ma non prese in considerazione nel decalogo. Basta anche una conoscenza
superficiale del libro sacro per convincersi che si parla abbondantemente sia
di sesso che di rispetto alla vita. Ma i dieci comandamenti affrontano temi
limitati e precisi e in modo molto esigente.
Mi
aspettavo che il tono solenne e perentorio usato in difesa della vita fosse
presente anche quando il comico ha parlato dell’adulterio. Invece l’argomento
lo ha fatto scivolare verso i registri interpretativi che gli sono più consoni:
ammiccamenti, allusioni, mezze battute corrosive miranti a distrarre il
pubblico e a minimizzare i drammi che il comandamento voleva evitare. Fino ad
annunciare, anche se come proposta estrema dei Soloni della scienza, un uso
terapeutico dell’adulterio. Il tutto in un clima diventato all’improvviso
scherzoso che richiamava l’atmosfera pruriginosa del cabaret intellettualoide
del secolo scorso.
Tutto
presentato con una certa eleganza e con innegabile verve comunicativa che ha
finito col prevalere nella valutazione positiva espressa da teologi e
monsignori illustri. Mi sembra di ricordare che la Bibbia presenta un
personaggio dotato di una grande abilità nel convincere la gente, proponendo
cose meravigliose con argomenti suadenti. Qualcuno si è lasciato persuadere dai
bei discorsi, e anche noi ne sappiamo qualcosa. Ci ha riprovato, anche servendosi
di scenografie spettacolari, con un falegname di Nazareth, che però lo ha messo
a tacere usando i suoi stessi argomenti. Alle parole della Bibbia,
addomesticata ai fini del Grande Ingannatore, Gesù ha risposto con altre parole
bibliche usate nel loro vero significato. Ed ha avuto la meglio.
È l’unico metodo valido per capire e apprezzare l’insegnamento che Dio ha voluto darci nelle pagine della Bibbia. Anche senza tuoni e lampi ma con parole che chiedono solo di essere capite e amate per diventare luce e guida della nostra vita.
Analisi acuta ed ineccepibile: la condivido "in toto". Carlo Mosca
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