TEMPERANZA E LAVORO
COME LIBERTÀ PER DIO
Premessa
Questa
riflessione è stata pensata come un tutt’uno con la visione di alcune scene di
intemperanza in diverse situazioni di vita. Suggerisco di preparare un
montaggio piuttosto rapido di immagini tratte da filmati differenti per
comunicare l’impressione di una crescita incalzante della violenza che non
risparmia nemmeno i luoghi che dovrebbero essere sede di confronto civile tra
idee diverse (parlamento), o destinati al divertimento (TV, spettacolo), o alle
esigenze normali delle persone (strada…). La presentazione non dovrebbe
superare i tre minuti e dovrebbe comprendere possibilmente scene di attualità
riguardanti episodi conosciuti dal pubblico presente.
Suggerisco alcuni link ad episodi di intemperanza. La rete
offre un’ampia possibilità di scelta.
Apriamo il vocabolario
Abbiamo dedicato tre minuti a
vedere alcuni filmati che presentano episodi di intolleranza in diverse occasioni
della vita. Avremmo potuto continuare con scene analoghe che si possono
facilmente visualizzare su internet cercando altri sinonimi come risse,
bullismo, sballo, ubriachezza, droga, violenza, prepotenza, sopruso… tutti
termini apparentati, discendenti diretti della madre comune che, con linguaggio
da intellettuali chiamiamo: INTEMPERANZA.
Questa a sua volta è la
sorellastra cattiva di quella che viene chiamata TEMPERANZA. In realtà possiamo
immaginarle come le due facce della stessa medaglia, una con la carica negativa
e l’altra con carica positiva. Si tratta di un’energia enorme concentrata
nell’animo umano, che può ottenere risultati devastanti o, al contrario essere
fonte di attività creative volte al bene e al progresso.
Noi cristiani siamo collegati con
le radici che affondano nella Bibbia e da questa attingiamo una enorme fiducia
nel valore delle parole. Ecco perché cerchiamo nei vocabolari e dizionari il
senso esatto dei termini che usiamo, consapevoli di maneggiare degli strumenti
molto delicati da cui dipende la comprensione, e quindi l’accettazione o il
rifiuto, del messaggio che vogliamo trasmettere. Naturalmente io mi muovo nel
contesto della lingua italiana che offre il vantaggio di derivare direttamente
dalla lingua latina dalla quale abbiamo ereditato, tra tante altre, anche la
parola sulla quale riflettiamo: TEMPERANZA che anche nel suono riproduce
l’originale temperantia.
La parola deriva dal verbo latino
temperare, che significa “mescolare in giuste proporzioni”. È evidente
che questa operazione presuppone la presenza di elementi differenti tra di
loro, cioè una varietà di componenti. Temperare dunque significa trovare un
giusto dosaggio tra gli ingredienti richiesti dalla ricetta che permetterà di
ottenere un cibo ricco di sapori, gradito al gusto e invitante. Come si vede,
l’etimologia del verbo non esige di per sé l’esclusione di qualche elemento, se
non di quelli dichiaratamente nocivi, velenosi o anche solo disgustosi. Non si
tratta di eliminare ma di armonizzare tra di loro realtà anche contrastanti per
ottenere qualcosa di nuovo nel quale l’inventiva, la fantasia e l’originalità
hanno un peso determinante.
Il sostantivo derivante, temperantia,
indica dunque la capacità di “regolare con saggezza ed equilibrio il
soddisfacimento dei bisogni e appetiti naturali” come definisce la nostra
Enciclopedia Treccani. Che questa capacità non sia patrimonio comune ma che
appartenga a pochi e che sia frutto di ricerca e di impegno costante ha indotto
a considerarla una “virtù morale” che contraddistingue l’uomo saggio,
consapevole delle proprie forze e debolezze, delle aspirazioni e delusioni,
alla ricerca della felicità e che non si dichiara vinto se non la raggiunge
pienamente.
Non si tratta dunque dell’atarassia
stoica che cercava la felicità nella pace dell’anima vista come assenza di
reazioni sentimentali fino a diventare apatia. La temperanza invece presuppone
un’attività intensa della persona che cerca di costruire nuovi equilibri tra
dinamiche contrastanti mettendo in gioco la propria libertà, consapevole dei
rischi che comporta l’attenzione continua e il dominio delle proprie azioni.
La poca attenzione al vero
significato delle parole ha giocato un brutto scherzo ai nostri antenati. Il
dominio delle passioni e degli istinti naturali è diventato spesso,
nell’interpretazione comune, l’aspetto prevalente della temperanza fino ad
identificarsi con essa. Inoltre il “dominio degli appetiti naturali” è stato
inteso come repressione totale di tutto ciò che proveniva dalla natura umana,
soprattutto se legato alla materia, alla “carne”.
Ma il verbo dominare non
significa eliminare o distruggere. Deriva dal latino “dominus” cioè padrone ed
indica il comportamento di chi esercita il potere su persone o luoghi reali o
in senso figurato. È ovvio che il padrone (normalmente!) ha interesse a
conservare e migliorare i propri beni, non a distruggerli. Anzi, l’espressione
“dominare una macchina, un attrezzo, una lingua” significa sfruttarla al meglio
delle sue possibilità ricavandone il maggior vantaggio possibile. Tutto
l’opposto del senso negativo dato spesso al “dominio” quando lo si riferisce alle
passioni che dovrebbero essere eliminate completamente dalla vita dell’uomo,
almeno secondo certe interpretazioni ascetiche di origini extra bibliche. Ma la
temperanza secondo l’insegnamento della Bibbia non è odio del corpo o disprezzo
dei sentimenti.
Che cosa dice il
Catechismo
Il Catechismo della Chiesa
Cattolica assume nel proprio insegnamento la virtù morale della temperanza
inserendola al quarto posto tra le “virtù cardinali” nel senso che sono viste
come i cardini attorno ai quali si muove tutta la vita dell’uomo (nn.
1803-1809). La prima è la prudenza, seguita dalla giustizia, dalla fortezza e
dalla temperanza. Queste virtù sono elencate già nel libro della Sapienza: «Se
uno ama la giustizia, le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Essa insegna
infatti la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza » (Sap 8,7).
Nella presentazione delle singole
virtù il Catechismo mette in evidenza una caratteristica comune, che si
potrebbe definire aspetto dinamico. In questa prospettiva si evita il pericolo
di intenderle come rinuncia a qualcosa di negativo, prospettando invece
l’impegno che richiedono per costruire una personalità autonoma e responsabile,
condizione assoluta per essere felici.
Mi pare importante, anche perché
è il tema che mi è stato proposto,
sottolineare quanto è detto a proposito della giustizia: «è la virtù
morale che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo
ciò che è loro dovuto» (n. 1807). Troviamo qui la convinzione che la fede in
Dio ha un fondamento nella razionalità, è un atto dovuto per giustizia. Vedremo
più avanti che anche il rapporto con Dio deve essere guidato dalla temperanza,
principio che si fa derivare proprio dalla stessa natura di Dio, quindi è un
atto razionale. Come si vede, siamo ben lontani dal fideismo ingenuo come anche
dalla negazione di tutto ciò che non è analizzato dai nostri strumenti
scientifici.
La temperanza è descritta al n.
1809: «modera l'attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell'uso
dei beni creati. Essa assicura il dominio della volontà sugli istinti e
mantiene i desideri entro i limiti dell'onestà. La persona temperante orienta
al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue
il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio
cuore».
Che cosa dice la Bibbia
nell’Antico Testamento
A sostegno di questa affermazione
(tra l’altro molto “temperata”, cioè equilibrata) viene citato il testo del
Siracide: «Non seguire le passioni; poni un freno ai tuoi desideri» (Sir
18,30). Se continuiamo a leggere i versetti che seguono saremo sorpresi del
realismo che li anima. Il desiderio incontrollato spinge a gesti irrazionali
che si ritorcono contro chi li compie. Merita di essere letto il v. 18,33 per
la sua attualità nella vita politica di oggi che minaccia la stessa
sopravvivenza di intere nazioni indebitate fino a dover dichiarare la propria
insolvibilità: «Non impoverire scialacquando con denaro preso a prestito,
quando non hai nulla nella borsa».
Non sono un economista, ma penso
che non ci sia bisogno di essere tecnici di politiche economiche per capire il
valore di un’osservazione che rasenta la banalità tanto è evidente. Non occorre
fare molti calcoli per la spending revue per rendersi conto della stupidità di
chi per non rinunciare alla soddisfazione di un momento si carica di debiti che
lo renderanno schiavo dei creditori per tutta la vita. Anche in questo caso la
temperanza non richiede la rinuncia al denaro o alla ricchezza, ma indica la
necessità di pianificare le spese sulla base delle proprie possibilità
finanziarie. Prevede anche la possibilità di un indebitamento rischioso, ma a
patto di investire in attività produttive. Comunque si tratta sempre di una
virtù dinamica che sappia organizzare le energie mediante programmi articolati
che mirano allo sviluppo e al miglioramento delle condizioni di vita.
Anche il capitolo 19 continua
sulla stessa linea con esempi concreti di intemperanza che porta al fallimento
della vita in cambio di una felicità illusoria ed effimera. «Un operaio
ubriacone non arricchirà… Vino e donne traviano anche i saggi…» (19,1-2).
Le cronache di questi anni (non solo in Italia…) confermano impietose l’analisi
del Siracide che prosegue nella sua denuncia descrivendo i comportamenti
derivanti dalla presenza o dall’assenza delle altre virtù che formano la base
della temperanza: prudenza (v. 19), giustizia (vv. 13-17), fortezza (v. 26-27).
«Non riferire mai una diceria…
non parlarne né all’amico né al nemico… non svelar nulla… Hai udito una parola?
Muoia con te! Sta’ sicuro, non ti farà scoppiare» (19,7-10). La nostra
anglofilia lessicale ha dato a questo comportamento denunciato dal Siracide il
nome di “gossip” illudendosi così di nobilitare quello che sembrava un volgare
“pettegolezzo”. Ma non è cambiata la realtà.
Così, chiamare “talk show” le
risse che invadono tutte le ore della giornata televisiva non ha cambiato la
natura di quanto il Siracide definisce “abominevole”: «Chi abbonda nel
parlare si renderà abominevole; chi vuole assolutamente imporsi sarà odiato»
(20,8). Sembra la descrizione fedele di quanto ci mostra la TV: tre o quattro
individui che urlano contemporaneamente cercando di sopraffare gli altri
aumentando il volume della propria voce, adeguando al tono prepotente la
violenza delle parole fino ad arrivare all’insulto volgare. È gente che ha
perso il controllo dei propri pensieri e delle azioni, è sotto l’effetto di una
droga che non sarà la polverina bianca o lo spinello, ma che si chiamerà
orgoglio, superbia, prepotenza, bullismo, ideologia, addirittura fede religiosa
o altri termini fino ad esaurire la lista dei sinonimi. All’autore biblico sono
bastate due righette per condannare senza sconti quelle che sono semplicemente
intemperanze.
Cosa c’è di più moderno che
seguire una dieta alimentare equilibrata, misurando i grammi e la qualità dei
vari cibi, seguendo rigidamente le GDA e le tabelle stabilite dai dietologi? Il
Siracide affronta anche questo argomento in modo deciso descrivendo, secondo il
suo solito, il comportamento che porta alla bulimia. «Non essere ingordo per
qualsiasi ghiottoneria, non ti gettare sulle vivande, perché l’abuso dei cibi
causa malattie, l’ingordigia provoca coliche. Molti sono morti per ingordigia,
chi si controlla vivrà a lungo» (37,29-31). Come si vede parla proprio
della temperanza nell’alimentazione e non la fa consistere nel digiuno o nel
rifiuto patologico del cibo fino all’anoressia. Il cibo è tra le cose “buone”
che il Creatore ha dato all’uomo proclamando che corrisponde perfettamente al
suo progetto sul mondo (Genesi 1,31). Proprio per questo possiamo
legittimamente affermare al termine della lettura anche di questa pagina:
“Parola di Dio” senza paura di profanare la sua santità.
Una temperanza malintesa (“rifiuto”
al posto di “controllo”) può diventare esasperata fino al punto di trasformarsi in fanatismo. In questo caso ci troviamo di
fronte ad una degenerazione che non cambia natura anche se viene praticata da
uomini e donne che consideriamo santi. Quando si supera il limite della ragione
non c’è buona fede che tenga e che trasformi in virtù quella che oggettivamente
è una patologia.
Una religione temperata contro il fanatismo
Su questa linea si muove la
riflessione di un altro grande saggio che ci ha lasciato un libro breve ma
intenso dove ha concentrato le esperienze fatte nella sua ricerca della
felicità. Si tratta del Qoèlet noto per la sua affermazione ripetuta
riguardante l’inconsistenza della vita dell’uomo. Mi fermo solo su un
particolare che può sembrare fuori posto in uno scritto che non nasconde
l’intento religioso del suo autore. Sembra che tra quelle che definisce
“vanità” metta anche il rapporto con Dio. Ma attenzione: non si mette in dubbio
la necessità di riconoscere la dipendenza dell’uomo dal suo Creatore.
È proprio questo legame che
unisce l’uomo a Dio che diventa un problema. Se Dio è quello che si dice,
onnipotente, invisibile, inconoscibile come può l’uomo con tutti i suoi limiti
azzardarsi a trattarlo con quella dimestichezza e confidenza che non ha nemmeno
quando tratta con gli altri uomini? La grandezza di Dio impone all’uomo un
atteggiamento prudente nell’individuare il giusto rapporto che deve stabilire
con lui. La distanza che li separa è enorme eppure l’uomo dipende totalmente da
questa entità misteriosa di cui non può fare a meno.
Qoèlet sente in modo drammatico
il conflitto tra la ragione e il bisogno di un appoggio solido che gli
garantisca una vita felice. L’insegnamento tradizionale aveva indicato in Dio
il riferimento sicuro e aveva codificato i comportamenti dell’uomo per ottenere
la protezione divina. Preghiere, riti suggestivi, offerte di sacrifici,
promesse di dare a Dio qualcosa in cambio della sua benevolenza. Era stata
fissata una specie di tabella che elencava le prestazioni date da Dio con il
prezzo relativo. Il Qoèlet non è convinto che sia proprio questa la volontà di
quel Dio che si vuole onorare imponendogli i nostri gusti senza poter sapere se
le nostre preferenze siano anche le sue.
«Dio è in cielo e tu sei sulla
terra; perciò le tue parole siano parche» (Qoèlet 5,1b). È questa la
motivazione oggettiva, razionale che dovrebbe impedire ogni fanatismo religioso
che spinge l’imprudente a diventare più religioso di Dio stesso. Geremia
esprime la stessa convinzione affermando che certe espressioni della fede di
Israele non corrispondevano alla volontà di quel Dio che si voleva onorare (Geremia
7,22) e che alcune forme di culto aberranti non erano mai nemmeno passate per
la mente di Dio (7,31). Qoèlet non proibisce di andare al tempio ma esorta a
non impegnarsi troppo con Dio recitando preghiere avventate e facendo promesse
imprudenti: «Bada ai tuoi passi, quando ti rechi alla casa di Dio.
Avvicinarsi per ascoltare vale più del sacrificio offerto dagli stolti che non
comprendono di far male» (Qoèlet 4,17). Non usa il termine
temperanza ma la descrive nella sua manifestazione più delicata per la quale si
sarebbe tentati di dire “De Deo numquam satis!”, nel senso che l’uomo non può
mai soddisfare le esigenze di Dio per quante offerte gli possa fare.
Qoèlet invece insegna a non
esagerare, soprattutto nei rapporti con Dio. «È meglio non far voti, che
farli e poi non mantenerli» (5,4) è forse la massima espressione di quel controllo
di sé che sintetizza le caratteristiche della temperanza. Si potrebbe
confondere con la prudenza, ma in realtà la ingloba in sé evitando alla
prudenza di trasformarsi nella paura di agire per non sbagliare.
Può sembrare strano che per
parlare della temperanza ci siamo rivolti a testi derivanti dalla riflessione
sapienziale e non dal Pentateuco o dai profeti. Solo Geremia, che pure si è
dichiarato “sedotto da Dio” (Geremia 20,7) e animato da un fuoco
interiore che lo spingeva a prendere posizioni nette, sviluppa riflessioni di
tipo sapienziale a partire dalla vita concreta con le sue provocazioni alla
fede. Eppure noi affermiamo che anche questi testi, all’apparenza dovuti a
considerazioni molto “umane”, devono essere considerati “parola di Dio” allo
stesso modo di altri testi che affermano esplicitamente la loro derivazione da
Dio, come accade per la Torah o per gli interventi dei profeti.
Già nel libro della Sapienza
(8,7) si affermava: «Se uno ama la giustizia, le virtù sono il
frutto delle sue fatiche. Essa insegna infatti la temperanza e la prudenza, la
giustizia e la fortezza, delle quali nulla è più utile agli uomini nella vita».
Un’altra stranezza, almeno
apparente, è che per parlare della temperanza siamo partiti dal suo opposto,
cioè da comportamenti di intemperanza nelle sue manifestazioni diverse. Anche
nella Bibbia, come si è visto, vengono descritti atteggiamenti negativi, che
però sono sempre giudicati in modo severo. Il motivo è molto semplice.
L’intemperanza si manifesta generalmente con gesti che attirano l’attenzione e
vogliono essere provocanti. La temperanza invece tende per sua natura a passare
inosservata e quindi non presenta azioni spettacolari. In altre parole la virtù
non si mette in mostra, mentre il vizio cerca di giustificarsi esibendosi.
Che cosa dice la Bibbia
nel Nuovo Testamento
Viene in mente una parola di Gesù
ai discepoli, quando li invita a non dare spettacolo delle proprie virtù per
essere ammirati dagli uomini e di accontentarsi dell’approvazione del Padre. «Guardatevi
dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati,
altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli» (Matteo
6,1). Questo presuppone un’attività dei discepoli, possiamo dire un “lavoro”
produttivo. Ma questo non deve costituire motivo di vanto personale
riconosciuto con titoli onorifici o con posizioni di privilegio. Per il
discepolo di Gesù dovrebbe contare solo la disponibilità totale per Dio. Il
discepolo autentico compie il suo lavoro senza avanzare pretese, consapevole di
non fare altro che il suo dovere. E ditemi se questa non è temperanza, anche se
il vangelo non usa questo nome.
Le riflessioni dei primi
cristiani hanno sviluppato gli insegnamenti del Maestro, che si era presentato
come continuatore della tradizione sapienziale, calandoli nei casi della vita
quotidiana. La lettera di Giacomo denuncia senza mezzi termini le guerre
indicandone le cause che le scatenano: le passioni incontrollate, il desiderio
di possedere, l’invidia. Interessante e di grande attualità l’osservazione che
la violenza viene esercitata contro l’uomo ma in realtà è contro Dio (Giacomo
4,1-4).
Il paragone con la pazienza
dell’agricoltore (Giacomo 5,7-8) è illuminante. Introduce un elemento
nuovo nella discussione: la temperanza, che porta il contadino ad adattarsi ai
ritmi della natura e ad evitare gli sprechi e così garantisce un buon raccolto.
Ma ciò presuppone la conoscenza e il
conseguente rispetto delle leggi della natura viste non come un’imposizione
arbitraria ma come espressione di un’intelligenza che mette ordine nelle realtà
umane indirizzandole verso un fine.
Riconoscere e accettare questo
progetto di vita è la più alta manifestazione della razionalità che dovrebbe
guidare l’uomo nelle sue scelte fondamentali. Il linguaggio religioso definisce
questo atteggiamento come “discernimento” e lo mette alla base di ogni
decisione caratterizzata dalla libertà. Il testo di Deuteronomio
30,15-20 (che ci viene proposto dalla liturgia di oggi) espone chiaramente
questo principio da cui si fa dipendere una vita realizzata in pienezza. «Vedi,
io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male». La
scelta iniziale comporta la coerenza di quelle successive e si viene così a
formare una catena “virtuosa” che raggiunge il suo vertice nella temperanza.
“Vivere bene altro non è che amare
Dio con tutto il proprio cuore, con tutta la propria anima, e con tutto il
proprio agire. Gli si dà (con la temperanza) un amore totale che nessuna
sventura può far vacillare (e questo mette in evidenza la fortezza), un amore
che obbedisce a lui solo (e questa è la giustizia), che vigila al fine di
discernere ogni cosa, nel timore di lasciarsi sorprendere dall'astuzia e dalla
menzogna (e questa è la prudenza”)” come dice il Catechismo.
La concretezza che caratterizza
le osservazioni di Paolo lo porta a riflettere sul comportamento degli atleti
che sono capaci di controllare le proprie energie sfruttandole al massimo per
ottenere la vittoria nelle competizioni. L’allenamento esige la rinuncia a
tutto ciò che può ostacolare lo sviluppo della muscolatura e la capacità di
sopportare la fatica e il dolore. Ma questo sforzo non è fine a se stesso
poiché è affrontato in vista del raggiungimento di un traguardo ambizioso: «Però
ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona
corruttibile, noi invece una incorruttibile» (1Corinzi 9,25).
Paolo ritorna più volte sul tema
della vita del credente ispirata all’insegnamento di Gesù. Questo gli fa capire
che l’impegno del cristiano a raggiungere il dominio di sé non è solo il
risultato di uno sforzo umano ma è rinforzato da un’energia in più che è
comunicata da Dio stesso e che viene indicata come opera dello “spirito”: «Il
frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà,
fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Galati 5,22). Anche in questo caso
troviamo una catena di atteggiamenti positivi che rendono la vita felice perché
realizzano gli ideali di ognuno che di per sé coincidono con quelli proposti da
Dio. Anche in questo caso la “temperanza” non consiste nella rinuncia ma
nell’equilibrio tra forze contrastanti, per ottenere qualcosa che si ritiene
importante. Penso che valga la pena notare le due estremità della catena che
parte dall’amore e si aggancia al dominio di sé cioè, come abbiamo visto, alla
temperanza.
E per concludere: «Per questo
mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la
conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla
pazienza la pietà, alla pietà l'amore fraterno, all'amore fraterno la carità. Se
queste cose si trovano in abbondanza in voi, non vi lasceranno oziosi né senza
frutto per la conoscenza del Signore nostro Gesù Cristo. Chi invece non ha
queste cose è cieco e miope, dimentico di essere stato purificato dai suoi
antichi peccati. Quindi, fratelli, cercate di render sempre più sicura la
vostra vocazione e la vostra elezione. Se farete questo non inciamperete mai.
Così infatti vi sarà ampiamente aperto l'ingresso nel regno eterno del Signore
nostro e salvatore Gesù Cristo» (2Pietro 1,5-11).
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