Era una battuta di
padre Nazareno Taddei quando iniziava le sue conferenze sul cinema. Alla
sorpresa degli uditori, rispondeva precisando che era la foto di una sedia ma non la sedia. In altre parole le foto, il
cinema, i disegni rappresentano la realtà ma non sono la realtà. La presentano come
la vede o la ricorda (o l’immagina) il fotografo o l’artista ma si tratta
sempre di un sostituto della “cosa”, mai della cosa in se stessa. La
rappresentazione può essere più o meno fedele ma non si potrà mai sovrapporre
esattamente all’originale tanto da identificarsi con quello. La preoccupazione
di p. Taddei riguardava l’aspetto dell’educazione alla lettura delle immagini
della vita presentate dal cinema.
Non so se l’illustre
studioso della comunicazione avesse presente il testo del libro della Sapienza
dove si attribuisce l’origine
dell’idolatria anche alla bravura dell’artista di scolpire statue così belle da
indurre la gente a considerarle la personificazione degli stessi dei e non
rappresentazioni della divinità: “la
folla, attratta dal fascino dell’opera, considerò oggetto di adorazione” i
re rappresentati, fino ad attribuire “a
pietre o a legni il nome incomunicabile”, cioè YHWH per gli Ebrei (cfr. Sapienza 14,18-21).
Anche le parole sono
immagini
L’identificazione dell’immagine
della realtà con la realtà stessa, che p. Taddei e il testo della Sapienza
attribuivano alla suggestione esercitata dalle immagini, deve essere attribuita
anche alla parola, pronunciata o scritta. Ogni parola richiama un oggetto,
un’azione, un sentimento ma non è né l’uno né l’altro, è solo un segno che
rimanda a qualcosa di diverso. Così anche un insieme di parole organizzate in
modo da formare il racconto di un avvenimento non saranno mai l’avvenimento ma
sempre e solo un segno che rimanda a qualcos’altro.
Potrà forse sembrare
ovvio, ma spesso si sentono e si leggono affermazioni di gente convinta che
quanto ha letto sui giornali o ha sentito alla radio o ha visto in TV
corrisponda esattamente a quanto è accaduto realmente. In una parola, si
scambia la narrazione della cosa con l’oggetto rappresentato, proprio come
avviene con le immagini.
Finché l’equivoco si
riferisce ad un evento sportivo, potrà essere oggetto di discussioni anche
accanite tra le diverse tifoserie, ma quando c’è di mezzo la politica o
l’economia le conseguenze possono essere molto serie.
Lo stesso accade anche
quando leggendo la Bibbia ci troviamo di fronte a racconti di eventi storici o
alla presentazione di personaggi del passato. A volte sono descritti così bene
da far pensare di trovarsi di fronte al personaggio in carne ed ossa o
coinvolgono talmente il lettore da dargli l’impressione di essere tra i
protagonisti dei fatti narrati. È la forza dell’arte in ogni sua
manifestazione.
Tutto procede liscio
quando si tratta di comunicare delle emozioni. Però le cose cambiano quando ci
troviamo di fronte ad avvenimenti raccontati con parole. La nostra cultura ci porta a cercare la
corrispondenza scrupolosa anche nei particolari tra le parole e i fatti, che
devono essere documentati. Per noi, lo
storico deve trovare documenti, interpretarli e organizzarli e pensiamo che sia
l’unico modo di raccontare il passato.
Anche gli antichi
storiografi cercavano i documenti ma gli archivi che potevano consultare erano
molto diversi dai nostri. Essi davano molta importanza alle testimonianze
orali, ai ricordi dei protagonisti tramandati all’interno di nuclei familiari o
della tribù di appartenenza. La parola
pronunciata ad alta voce era la protagonista indiscussa della comunicazione
nella vita e poi nella storia.
Parole e cose – nomi e
persone
La lingua ebraica
evidenziava questa centralità della parola attribuendole la capacità di diventare
l’oggetto che indicava, quando era pronunciata dal Dio autore di tutte le cose.
Secondo il libro della Genesi, “Dio
disse: ‘Vi sia luce’ e vi fu luce” (Genesi 1,3). Non per niente in ebraico il termine dabar significa parola e anche cosa. La stessa caratteristica era attribuita ai
nomi di persona che indicavano qualche particolarità di chi lo portava. Così ad
esempio il figlio di Abramo viene chiamato Isacco (dal verbo ebraico tsachaq ridere “egli riderà”) in riferimento alla risata incredula della madre Sara
quando sentì dire che avrebbe avuto un figlio nonostante che fosse ritenuta
sterile e fosse molto anziana (Genesi
18,9-15; 21,1-7). Anche il Nuovo Testamento conosce questo legame tra nome e
persona che lo porta, come è evidente per il nome che Giuseppe deve dare al
figlio di Maria: “lo chiamerai Gesù
(in ebraico: Yeshua derivato dal
verbo yasha’ = salvare, cioè
Salvatore): egli infatti salverà il suo
popolo dai suoi peccati” (Matteo
1,21). Lo stesso Gesù quando vuole assegnare a Simone figlio di Giona un
incarico importante gli cambierà il nome in Kefa
che significa roccia, poi diventato
Pietro, per indicare che sarebbe stato il fondamento della futura chiesa (Matteo 16,18).
La trascrizione dei due
nomi – Gesù e Pietro – nelle nostre lingue,
non ci permette di cogliere le allusioni evidenti solo nelle lingue originali e
la spiegazione che se ne dà fa pensare ad un gioco di parole senza importanza.
Non era così per gli antichi che, come abbiamo visto, attribuivano alle parole
la capacità di modificare la realtà almeno in certe occasioni. Non c’è quindi
da meravigliarsi se leggendo la presentazione di un personaggio abbiamo l’impressione
di trovarcelo di fronte con le caratteristiche descritte. Susciterebbe
l’ilarità generale chi, sfogliando il catalogo di un mobilificio dicesse: “Sto
vedendo le foto di uno scaffale, di un divano, di una poltrona” e non dicesse
semplicemente che vede i singoli oggetti rappresentati nelle immagini.
Punti di vista
differenti
Ma tornando alla
Bibbia, è capitato spesso di sentir leggere certi racconti come se fossero il
resoconto di un pignoramento redatto da un burocrate pignolo, attento a non
lasciarsi sfuggire il minimo particolare dei beni sequestrati. E quando si
trovavano delle notizie contrastanti tra di loro, il lettore entrava in crisi,
non sapendo più a chi dare ragione. Si metteva la Bibbia di fronte ad un “aut,
aut” o è così o non è così. A partire dai racconti della creazione, si cercava
di costruire una narrazione unica mettendo insieme elementi disparati dovuti a
culture diverse, ad epoche lontane tra di loro, ad esigenze di vita differenti.
Tutto questo perché si identificava il racconto – cioè l’immagine della realtà
– con la realtà stessa. Se a questo si aggiungeva la convinzione che era
“Parola di Dio” e che Dio non può insegnare il falso, la ricetta era completa:
il polpettone era pronto per essere servito.
Questo avveniva nel
mondo dei credenti. Al di fuori di questo, si arrivava, giustamente, ad altre
conclusioni. Le contraddizioni numerose contenute nella Bibbia, erano
considerate la dimostrazione della sua falsità. La Bibbia non corrisponde alle
nostre conoscenze sull’origine e sulla struttura dell’universo, racconta una
storia inventata, presenta personaggi sconosciuti alla documentazione in nostro
possesso, le scoperte archeologiche non hanno portato alla luce elementi corrispondenti
ai racconti biblici? Quindi non perdiamo tempo con delle favole per bambini.
Proviamo a leggere le
pagine bibliche tenendo presente il principio: “la foto di una sedia non è una
sedia” e vediamo che cosa cambia. Il primo capitolo della Genesi non è l’origine del mondo ma è il racconto di come l’autore la immaginava. Infatti il
secondo capitolo dello stesso libro la presenta in modo molto diverso. Ci sono
elementi comuni tra le due narrazioni però le differenze ci costringono a
riconoscere che nessuna delle due corrisponde esattamente a quanto è
effettivamente accaduto. Chi ha messo insieme i due racconti ha fatto un lavoro
molto intelligente perché ci ha permesso di capire come dovevamo leggere e
interpretare quelle pagine. Se ci abbiamo messo tremila anni a capirlo non
possiamo incolpare la Bibbia.
Spostiamo l’attenzione
su di un personaggio celeberrimo, Salomone. La Bibbia ne tesse i più grandi elogi
tanto da farlo entrare anche nella cultura laica come modello di sovrano
sapiente. Ma accanto a testi traboccanti di lodi sperticate (1Re 10) ne troviamo altri che ne
denunciano i grossi limiti sia come uomo, sia come re, sia come padre e
soprattutto come fedele al Dio del suo popolo (cfr. 1Re capitoli 11-12). Questi giudizi critici sono sopraffatti da
quelli elogiativi per la costruzione del tempio, per le ricchezze, per la
saggezza, per il lungo periodo di pace attribuita al suo regno in conformità al
significato del nome, in ebraico Shelomo, da shalom pace.
Salomone e la regina di Saba |
È evidente che non ci
troviamo di fronte alla persona del re bensì a due ritratti di un personaggio
idealizzato dai sostenitori e denigrato dagli avversari. Grazie alla Bibbia che
ci ha conservato, forse a denti stretti, queste testimonianze preziose che ci
aiutano a capire che cosa possiamo chiedere alla Bibbia soprattutto quando,
sullo stesso tema ci offre due punti di vista diversi. Nessuno dei due esprime la
verità che è sempre molto più complessa di come viene presentata.
Parlando di Salomone
abbiamo ricordato tra le sue benemerenze la costruzione del tempio, opera
grandiosa che la Bibbia afferma essere stata voluta espressamente da Dio. Ma
altri testi biblici dichiarano che Dio non ha bisogno di una casa e che può
farne a meno (2Samuele 7,1-17), come
è poi avvenuto più volte nella storia (Geremia
7,1-15; 2Re 25,8-17) e come ha
dichiarato anche Gesù nel colloquio con la donna samaritana (Giovanni 4,20-23). Ma proprio Gesù ha
cacciato dal tempio chi lo sfruttava per trarne vantaggi economici (Matteo 21,12-13). Come si vede, non
possiamo porre l’alternativa “aut, aut”, tempio sì o tempio no. E ringraziando
Dio, la Bibbia ci ha conservato gelosamente la verità con le sue molteplici
facce.
Si potrebbe continuare
citando testi contrastanti, a conferma che le
narrazioni non sono i fatti narrati ma ricordi tramandati e conservati con
cura perché ritenuti il fondamento della fede del popolo ebraico condivisa
anche da noi cristiani. È evidente che il principio è valido per interpretare
tutta la Bibbia e non solo i racconti “storici”.
Gentile don Giovanni, mi permette di commentare il suo ultimo scritto?
RispondiEliminaIntanto devo precisare che il ‘gentile’ non è la solita formula epistolare formale, ma è il riconoscimento della sua gentilezza nei miei confronti, nei confronti di uno che si permette di avanzare critiche e potrebbe bene essere ignorato o avversato.
Dunque: mi trovo perfettamente d’accordo con quello che lei ha scritto e che riassumo con due virgolettati tratti proprio dal suo scritto:
“… le narrazioni non sono i fatti … ma ricordi tramandati … È evidente che il principio è valido per interpretare tutta la Bibbia e non solo i racconti “storici”.
“Se ci abbiamo messo tremila anni a capirlo … ”
Allora l’affermazione che avevo fatto in un precedente commento, e cioè che non mi piace il Dio dell’Antico Testamento, non era del tutto ingiustificata. Quel Dio, iroso e vendicativo, che ci viene presentato ‘non è Dio’, ma appunto la rappresentazione che ne hanno fatto coloro che hanno scritto sulla base di tradizioni orali ripetute per generazioni e quindi distorte secondo la mentalità dei riferenti (prima) e degli estensori della sacra scrittura (alla fine). Se poi ci aggiungiamo la povertà dei linguaggi antichi …
Concludo: l’Antico Testamento è per me un insieme di testi pregevoli dal punto di vista letterario, soprattutto considerando l’epoca della loro redazione, ma di scarso valore storico. E questo mi pare che lo riconosca anche lei. E l’aspetto mitico è decisamente preponderante nella prima parte.
P.S.: Non vorrei scandalizzare qualche lettore e perciò lei può non pubblicare questo mio commento. Può restare tra noi. Grazie.
Signor Agostino, salto i convenevoli per brevità. I suoi commenti sono stimolanti perché toccano temi fondamentali che spesso non sono affrontati con sufficiente chiarezza. Uno di questi è la storicità della Bibbia. Nel passato (e ancora oggi) molti credenti la intendevano come fedeltà assoluta dei racconti ai fatti raccontati anche nei minimi particolari. Quando l'archeologia o altri testi antichi costringevano a rivedere i dati biblici si gridava subito denunciando le falsità della Bibbia. In altre parole, anche i detrattori avevano le stesse convinzioni dei sostenitori e non tenevano conto del principio che ho illustrato con l'esempio della sedia, quando è la stessa Bibbia che mi dice che si tratta di ricordi differenti riportati fedelmente per non perdere nessuna sfaccettatura di eventi lontani ritenuti importanti per ragioni che conoscevano quelli che li avevano raccolti. Cioè, i racconti contrastanti, numerosi nella Bibbia, sono una conferma della sua "storicità" nel riportare e dare stabilità a quanto sapevano della propria storia. E questo discorso vale anche per l'immagine di Dio fornita da quei testi. Proprio i mille volti attribuiti a Dio dimostrano che si tratta di prospettive diverse dalle quali cercavano di dare un volto a quella realtà misteriosa che sfuggiva ad ogni definizione. Era convinzione comune che esistesse una divinità che però non poteva essere identificata con nessuna realtà conoscibile dall'uomo. L'unica possibilità di intuirne le presenza era la vita stessa con tutte le sue contraddizioni: bene e male, fortuna e sfortuna, pace e guerra, salute e malattia... Voler ignorare questa realtà è "antistorico" mentre invece la Bibbia è pienamente storica perché presenta la realtà, senza infingimenti pietosi, puritani o buonisti. Non possiamo prendere dalla Bibbia solo quello che piace a noi, non possiamo fare gli "spiedini" biblici infilzando mezze frasi pescate qua e là per dimostrare le nostre idee. La Bibbia va presa integralmente con le sue contraddizioni. Che vanno spiegate, certo, ma non rifiutate solo perché pongono domande fastidiose. Mi scusi la chiarezza (almeno spero sia stata tale) con cui ho esposto il mio pensiero. Se avrà la pazienza di seguire i miei post vedrà che continuerò ad insistere su questo tema, anche se potrà dare fastidio a qualcuno. Spero non lei.
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