LA BIBBIA E NOI
Come si sa, la Bibbia è una straordinaria raccolta di scritti
che riportano le riflessioni sui diversi casi della vita fatte nei secoli
passati da uomini appartenenti al popolo di Israele. Le esperienze commentate
ricoprono le situazioni più frequenti, così che ogni lettore può trovare
qualche caso che presenta forti analogie con quanto sta vivendo. Evidentemente
saranno differenti le modalità di realizzazione tra l’episodio biblico e quanto
vissuto dal lettore moderno, ma le motivazioni che hanno spinto i protagonisti
biblici sono sempre le stesse che muovono l’uomo di ogni tempo.
Ad esempio, il desiderio smodato della ricchezza con le
conseguenze negative che produce è un tema ricorrente nella Bibbia. Le
ricchezze ricercate avidamente potranno essere, a seconda dei casi, oggetti di
metalli preziosi, possesso di terreni, palazzi, vestiti lussuosi, una vita
agiata. L’uomo moderno può avere gli stessi desideri che però identifica in
oggetti del tutto sconosciuti agli antichi. Oggi non desideriamo più soltanto
la vigna del vicino ma estendiamo l’interesse al possesso di intere regioni.
Oggi colleghiamo la felicità della ricchezza a ville miliardarie, allo yacht da
crociera, ai conti in banca, agli abiti firmati, alle collezioni di opere
d’arte, al controllo dei capitali di grandi imprese, tutte cose che in passato
non esistevano se non in forme diverse.
Un lettore attento e responsabile non farà fatica a trovare
nelle pagine della Bibbia personaggi, avvenimenti o suggerimenti per vivere
sereni e tranquilli che sembrano corrispondere alle proprie aspettative quasi
fossero una foto della realtà contemporanea. Penso che tutti abbiamo avuto
questa sensazione leggendo certi racconti che sembrano ricavati dalla cronaca (spesso
nera) dei nostri quotidiani. A seconda dei casi e dello stato d’animo del
lettore, l’analogia tra narrazione biblica e avvenimenti recenti potrà
suggerire reazioni differenti.
Riferirsi alla Bibbia
con rispetto
Si può trovare una conferma della bontà delle proprie scelte
oppure la condanna di comportamenti giudicati in modo severo dagli autori
biblici. A volte una frase del testo biblico può sembrare una sintesi
folgorante del proprio ideale di vita ed essere considerata come un programma
che si vuole realizzare. Spesso si ricorre ai testi biblici in conferenze o in
scritti anche non di carattere religioso per sostenere la validità delle
proprie argomentazioni.
In linea di massima questi riferimenti alla Bibbia sono segno
della considerazione in cui è tenuta nella nostra cultura, anche non
dichiaratamente religiosa e quindi sono apprezzabili. Se un giovane sceglie una
frase del vangelo per presentare agli amici l’annuncio della sua ordinazione
sacerdotale non vuole certamente far credere che l’evangelista pensasse proprio
a lui quando scriveva quelle parole dette da Gesù in un contesto diverso. La
citazione del vangelo viene intesa da tutti come l’impegno che il nuovo
sacerdote si assume nell’impostare la propria vita.
Così quando si accompagna l’annuncio della morte di una
persona cara con una frase del vangelo si vuole solo esprimere la propria fede
nella risurrezione e lo si fa con le parole che hanno sostenuto e alimentato la
speranza del defunto e dei suoi familiari. A nessuno viene in mente di
controllare la citazione per verificare se corrisponda o no al significato del
testo originale.
Quando non si rispetta
la Bibbia
Le cose cambiano quando si riportano frasi della Bibbia per
sostenere le proprie idee e dimostrare la validità delle argomentazioni
basandosi sull’autorità del testo considerato sacro. Si parte dal presupposto
che la Bibbia è “Parola di Dio” e quindi deve esprimere sempre la verità.
Perciò, se il testo biblico afferma le cose che dico io, il mio insegnamento o
comunque le mie affermazioni sono vere e indiscutibili. Forse non lo si dice in
modo così sfacciato, ma chi parla o scrive citando versetti biblici e i lettori
o ascoltatori condividono questa convinzione di fondo.
In questi casi è necessario rispettare rigorosamente la
corrispondenza non solo delle singole parole ma del significato globale delle
frasi tra quello che si dice o scrive e quello che è scritto realmente nella
Bibbia. Si corre il rischio di attribuire ai testi biblici affermazioni che
sono solo frutto della fantasia di chi li riporta in modo non corretto. A volte
si cade in questa trappola spinti dal desiderio di presentare solo gli aspetti
belli e gradevoli di un testo che invece contiene anche elementi ostici ai
nostri gusti e alla nostra sensibilità e che vanno comunque spiegati ma non
eliminati.
Qualche volta si citano delle parole che si trovano
effettivamente nella Bibbia ma non esprimono il suo insegnamento, sono nella Bibbia ma non della Bibbia. Un esempio per chiarire l’idea. In tre Salmi si trova
l’affermazione: “Non c’è Dio” (Salmi 10,4; 14,1; 53,1). Materialmente
sono parole che si trovano nel testo
ma non dicono il pensiero del testo
che infatti le attribuisce allo stolto. Ma un autore italiano contemporaneo ha
scritto un intero libro per dimostrare che nell’Antico Testamento non si parla
di Dio.
Dire che “Gesù
bestemmiava” può risultare sorprendente e scandaloso per molti, eppure è
scritto nel vangelo di Marco (14,64) che mette l’accusa sulla bocca del sommo
sacerdote. Anche in questo caso le parole sono nel vangelo ma non corrispondono all’insegnamento del vangelo. E si potrebbe continuare
ricordando altri casi di citazioni distorte, a volte intenzionalmente ma spesso
per ignoranza. Il risultato è comunque lo stesso: attribuire alla Bibbia ciò
che non dice ed esponendola a smentite che non la riguardano ma che fanno
sorgere dei dubbi sulla sua credibilità.
Le citazioni bibliche “ad
orecchio”
Il problema diventa più serio quando è la liturgia a trattare
i testi biblici con una certa
disinvoltura, andando, per così dire, ad
orecchio. Non dubito affatto delle buone intenzioni delle anime pie che hanno
introdotto versetti biblici qua e là sotto forma di antifone varie senza
prestare attenzione al senso che hanno nel contesto di origine. Bisogna anche
riconoscere che spesso queste scelte sono favorite dalla bellezza e dalla
poesia dei testi citati, per di più in latino che esercitava tutto il fascino
della sua capacità espressiva. Aggiungiamo l’incanto di certe melodie
gregoriane, e la ricetta ha tutti gli ingredienti per essere accolta con
applausi.
Confesso che è difficile resistere alla suggestione del “Rorate coeli desuper et nubes pluant justum”
con le strofe struggenti che vi sono state aggiunte per formare il canto tipico
dell’Avvento. Pensate solo a quella cascata di note che porta fino al fondo
dell’abisso e che descrive sonoramente le parole “et cecidimus”. L’abbinamento è perfetto e giustifica l’invocazione
al Salvatore perché scenda dal cielo a portare tra gli uomini quella pace che
non sono stati capaci di costruire. Non c’era preghiera più adatta al tempo
dedicato all’attesa del Natale di Gesù. Infatti la liturgia cattolica assegna
questa supplica accorata come antifona d’ingresso alla quarta domenica di
Avvento.
Ma se ci chiediamo qual è il significato di quelle parole nel
libro di Isaia da cui sono tratte, corriamo il rischio di perdere un po’ di
poesia ma soprattutto di perdere fiducia nella Bibbia che nel testo citato (Isaia 45,8) non si riferisce affatto al
messia futuro bensì, più prosasticamente, alla
pioggia. Il contesto del
capitolo 45 è la rivendicazione che il profeta attribuisce al Dio di Israele,
di essere l’unico ad aver fatto ogni cosa esistente e di poter guidare la
storia a proprio piacimento. In particolare al v. 7 è detto chiaramente: “Io formo la luce e creo le tenebre, faccio
il bene e provoco la sciagura; io, il Signore, compio tutto questo”. Anche
la pioggia che fa fiorire il deserto, obbedisce agli ordini di Dio. Come si
vede la descrizione è coerente e non lascia spazio ad altre interpretazioni.
Forse la poesia di un altro testo ha giocato un brutto
scherzo a chi ha scelto come antifona d’ingresso alla liturgia eucaristica
della seconda domenica dopo Natale il testo del libro della Sapienza
(18,14-15a). “Mentre un profondo silenzio
avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo rapido corso, la tua
parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale…”. L’atmosfera densa di
attesa creata dal versetto 14 si scioglie con l’introduzione del “logos”
onnipotente che lascia il trono di Dio. Per un cristiano queste parole
richiamano spontaneamente il mistero del Verbo di Dio che si fa carne, come è
scritto nel prologo del vangelo di Giovanni. Tutto coincide alla lettera e
quindi… Ma nel testo greco del libro della Sapienza il versetto continua
definendo il “logos” “guerriero
implacabile” che non scende pacificamente dal trono celeste per dimorare
tra gli uomini, ma “si lanciò in mezzo a
quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo decreto
irrevocabile e, fermatasi, riempì tutto di morte; toccava il cielo e aveva i
piedi sulla terra” (18,15b-16).
Questo dice il libro della Sapienza, che descrive con enfasi
drammatica la morte dei primogeniti
egiziani e non si riferisce affatto al
mistero del nostro Natale. È innegabile la tentazione di forzare il testo in
prospettiva messianica ma è un risultato che si ottiene solo fermandosi a metà
versetto e addolcendo il violento “si
lanciò” con un innocuo “venne”.
Purtroppo l’abitudine di mutilare i testi scegliendo solo quello che fa comodo
si è diffusa a macchia d’olio e ha contaminato non solo la liturgia ma anche i
testi di teologia e i documenti del magistero. È quello che mi piace chiamare
“metodo dello spiedino” che infilza una dietro l’altra citazioni di mezzi
versetti comunicando così una “mezza verità” e attribuendola alla Bibbia.
Sono tentato di abbandonare il riferimento allo spiedino per
passare alla “raccolta differenziata”, perché con questo sistema si raccolgono
soltanto gli scarti della Bibbia ma si perde una delle caratteristiche
principali della Bibbia: la sua unità nella diversità.
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