IL VANGELO DEI
DELUSI
(o: i delusi dal
vangelo?)
Il brano del vangelo di Giovanni che
abbiamo letto nella terza domenica del tempo di Pasqua (Gv 21,1-19) è stato
composto con grande maestria. Figura come un’appendice al vangelo stesso che si
dichiara chiuso con il capitolo 20. Ma non è questo l’aspetto su cui mi voglio
fermare. Vorrei richiamare l’attenzione sulla composizione letteraria dei
versetti 21,1-19.
1 –
La pesca e la colazione.
Non è un particolare secondario.
Infatti chi legge è avvantaggiato sui personaggi ed è spinto senza volerlo a
dare un giudizio negativo sulla loro incapacità di riconoscere “il Signore”.
Questa denuncia dell’incredulità dei discepoli è una costante nei racconti delle
apparizioni del Risorto ed assume il valore di testimonianza di un fatto reale
anche se non documentabile.
In questa prospettiva va vista
l’abbondanza di particolari descrittivi che raggiunge quasi la pignoleria:
l’invito dello sconosciuto a gettare la rete dal lato destro della barca (v. 6),
Pietro che si riveste prima di gettarsi in acqua (v. 7), la distanza della barca
dalla riva (v. 8), i carboni accesi con la grigliata di pesci e il pane (v. 9),
il numero preciso dei grossi pesci e la resistenza della rete (v. 11), l’invito
a mangiare rivolto agli apostoli ammutoliti che vengono serviti da Gesù (v. 12).
Tutto sembra voler dire che si riferisce un fatto realmente accaduto e ricordato
nei minimi particolari.
Fin qui abbiamo visto la descrizione
dell’ambiente. Vediamo che cosa dicono e che cosa fanno i personaggi che vi
operano. L’affermazione di Pietro: “Vado a pescare” dà l’impressione di voler
rompere un silenzio divenuto imbarazzante per tutti. Viene spontaneo pensare che
i sette avessero parlato di Gesù cercando di capire il senso di quei fatti che
li avevano sconvolti. La decisione di Pietro allenta la tensione facendo capire
agli altri sei, che i rimpianti sono inutili, la vita continua, e allora “Veniamo anche noi con te” (v. 3). Come a dire: ormai non c’è altro
da fare.
Ma l’unica cosa che riescono a fare,
è salire sulla barca: grande impresa! Di pesci, nemmeno l’ombra. Ormai è l’alba,
non resta che tornare a terra.
“Ragazzi, non avete dei pesci?” era
una presa in giro o una provocazione la voce di quello sconosciuto che doveva
aver seguito da terra la conclusione infelice delle loro fatiche? (v. 5). In
quel “Nooo!” della risposta i sette pescatori (si fa
per dire) hanno scaricato tutta la rabbia e la delusione a cui ora si aggiunge
anche una brutta figura.
“Gettate la rete alla vostra
destra”. E adesso ci vuole anche sfottere – devono aver pensato i sette
“esperti” di pesca. Ma l’automatismo del gesto è scattato ed è accaduto
l’incredibile che li ha lasciati senza parole. Da questo momento resteranno muti
eccetto “il discepolo amato da Gesù” che suggerisce a Pietro “È il Signore” (v.
7). Sarà Gesù il solo a parlare incoraggiando i discepoli a completare la
preparazione del pasto e a cibarsi.
2 – Il dialogo tra Gesù e
Pietro.
Due annotazioni di tempo fanno da
cerniera tra il primo quadro e il secondo. Il primo si conclude con
l’affermazione che quella era “la terza volta che Gesù appariva ai discepoli”
(v. 14). Il secondo inizia con “Dopo che ebbero mangiato” (v. 15) senza
specificare di più. La collocazione del racconto invita a legarlo al precedente
e anche l’argomento sviluppato suggerisce questa lettura. Ma non è possibile
precisare ulteriormente.
Indipendentemente dalla sua
collocazione il racconto è strutturato come un dialogo esclusivo tra Gesù e
Pietro. Non presenta delle azioni (come nella prima parte) ma è giocato tutto
sulla parola ridotta a tre formule (“mi ami”
- “ti amo” -
“pasci”) ripetute per tre volte con alcune varianti
significative.
La prima riguarda il verbo “amare”. La traduzione italiana non può rendere la
differenza presente nel testo greco che usa due verbi diversi: agapao e fileo. Il
primo è usato da Gesù nelle prime due domande mentre Pietro risponde con il
secondo. Nella terza domanda anche Gesù usa il verbo fileo. Non entro nella differenza di significato tra
i due verbi: è sufficiente averla segnalata.
La seconda variante è più importante
dal punto di vista della struttura del brano e riguarda la risposta di Pietro.
Alle due prime domande l’apostolo risponde senza tentennamenti. La terza volta
invece ripete tra sé la domanda come se volesse assicurarsi di aver capito bene.
La sicurezza quasi ostentata se non spavalda delle prime risposte è sostituita
da un’espressione commovente per la sincerità coerente con il carattere
impulsivo di Pietro, come emerge da tutto il brano.
Conclusione: come leggere il
vangelo.
Le azioni descritte nel nostro
racconto e soprattutto le parole riportate, rivelano un alternarsi di sentimenti
manifestati apertamente o facilmente intuibili. L’autore ha saputo creare
all’inizio un’atmosfera che comunica la delusione degli apostoli superstiti al
fallimento dei loro sogni. L’introduzione inaspettata di Gesù incomincia con una
parola che diventa significativa quando è accompagnata dal segno prodigioso. La
stessa parola è la protagonista del dialogo con Pietro che ha come destinataria
tutta la Chiesa.
Un testo così ricco di suggestioni
deve essere presentato con una lettura che trasmetta le emozioni e i messaggi
che l’autore ha voluto comunicare. Una lettura
monotona e distaccata uccide il testo. Lo stesso effetto negativo è
prodotto da una lettura che enfatizza il testo in modo indebito. Ad esempio se
si legge il “Vado a pescare” di Pietro e il “Veniamo anche noi” con tono
entusiastico, gioioso, come se fosse l’inizio di una bella gita in barca sul
lago si comunica un messaggio contrario al significato del racconto. Così la
triplice risposta di Pietro alla domanda di Gesù deve essere letta con tre toni
diversi: deciso e sicuro la prima volta – normale e pacato la seconda – accorato
e incerto la terza. Lo esige il testo.
Non è che si debba trasformare in
recita teatrale la proclamazione del vangelo. Si tratta solo di leggere con
fedeltà il testo dando alle parole il loro significato. Certamente una lettura
non solo del vangelo ma di qualsiasi altro testo, fatta con questi criteri non
si può improvvisare né affidare al primo malcapitato, chierichetto o no. Deve
essere studiata e preparata, preferibilmente registrata e risentita. Richiede
impegno, fatica e tempo. Ma ne vale la pena, se non vogliamo sentirci dire alla
fine della lettura, quando affermiamo alzando il tono della voce, che è “Parola
di Dio” o “Parola del Signore”: “Ma come parla male questo vostro
Signore!”.
Pensavo che in questa sede fosse sufficiente accennare al problema del dialogo tra Gesù e Pietro senza approfondirlo, vista la diversità di opinioni tra gli studiosi. Ma la domanda di un amico mi ha fatto capire che c’è il desiderio di saperne di più. Le traduzioni nascondono il problema che nasce dalla presenza nel testo greco di due verbi differenti per indicare quello che nelle altre lingue è detto con un unico verbo: “amare”. La lingua greca che conosciamo dai testi classici ha a disposizione tre parole con i verbi rispettivi: eros, agàpe e filìa. Con il primo si indica la passione amorosa che si esprime soprattutto attraverso il sesso, con il secondo si evidenzia la dedizione completa ad un ideale, ad una professione mentre il terzo è riservato alla relazione di amicizia. I limiti dei tre ambiti sono molto sfumati. I testi della Bibbia scritti in greco usano solo una volta il termine “eros” il cui significato viene assorbito da “agàpe” che nel greco classico non era molto frequente. Come si vede, la molteplicità di significati che a volte si sovrappongono rende impossibile una distinzione netta nell’uso dei termini che finiscono per essere considerati sinonimi. Per questo motivo molti studiosi non danno importanza al fatto che alla domanda di Gesù che chiede a Pietro se sente di avere “agàpe” verso di lui l’apostolo risponde di provare “filìa”. Con altre parole potremmo interpretare i due termini in questo modo: “Mi vuoi bene davvero, tanto da considerarmi l’unico scopo della tua vita?” al che Pietro avrebbe risposto: “Ti assicuro la mia amicizia!”. È evidente il dislivello tra le due posizioni, ripetute alla lettera con la seconda domanda. La terza volta Gesù sembra adeguarsi al livello di Pietro che sembra scosso dal cambiamento, riflette ma non modifica la sua posizione entrando nella prospettiva del maestro. “Almeno mi garantisci la tua amicizia?” avrebbe ribattuto Gesù. “Non ti si può nascondere nulla!” – protesta Pietro, che però non estende il suo impegno oltre i confini di una profonda amicizia. Si tratta di una ricostruzione ipotetica che crolla se non si riconosce la differenza di significato tra i due verbi. L’ultima traduzione italiana ufficiale del 2008 usa il verbo “amare” nelle prime due domande di Gesù e “voler bene” nelle risposte di Pietro e nella terza domanda. Il tentativo dimostra attenzione al problema ma non rende esattamente le sfumature di significato del testo greco. Ma dobbiamo ancora chiederci se la distinzione dei significati risale a Gesù stesso e a Pietro oppure se è stata elaborata dall’autore di questo brano di vangelo. Se Gesù e Pietro parlavano aramaico, lingua affine all’ebraico che fa uso di un solo verbo per indicare l’amore (ahav), non potevano aver fatto un dialogo come riportato dal racconto scritto in greco. Altra questione irrisolta è il termine di confronto dell’amore di Pietro. “Mi ami più di [quanto ami] costoro (cioè gli altri apostoli? O le altre cose?)”. Oppure: “più di [quanto mi amano] costoro?”. Come si vede, il brano presenta alcune difficoltà di interpretazione che non sminuiscono affatto il messaggio riguardante la figura di Pietro e il ruolo che Gesù gli ha affidato. È inoltre evidente che nello spazio limitato di un articolo divulgativo non è possibile esaurire tutti gli aspetti suggeriti da testi spesso molto elaborati nella loro composizione letteraria e che noi leggiamo con eccessiva superficialità che ci impedisce di cogliere la ricchezza del loro contenuto.
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