Il brano del vangelo di Matteo (18,15-20) che
abbiamo letto durante la celebrazione della messa domenica scorsa 7 settembre,
proponeva alla nostra riflessione soprattutto un tema che è sempre stato
attuale ma che oggi assume dei contorni inquietanti. Potremmo riassumerlo in
due parole: responsabilità e solidarietà.
Un altro tema evidente è l’invito al perdono
delle offese ricevute. Lo ha inteso in questo senso Pietro che, nel seguito del
racconto di Matteo, pone a Gesù la celebre domanda “Quante volte dovrò
perdonare? Fino a sette volte?”.
Ma vorrei fermarmi sull’aspetto che ho
evidenziato prima, anche perché è messo in primo piano dalla scelta della
liturgia che propone il testo di Ezechiele dove il profeta è presentato come la
sentinella, responsabile della sorte dei suoi concittadini. Notiamo subito che
la responsabilità della sentinella si limita al dovere di dare l’allarme per
segnalare un pericolo, non riguarda il fatto che il segnale sia accolto o meno
dalle persone che doveva allertare.
Il discorso di Gesù è rivolto ai suoi
discepoli e muove dal presupposto che qualcuno abbia commesso una colpa contro
di loro. Notiamo che il “qualcuno” non è considerato un estraneo o un nemico ma
è definito come “fratello”. Anche in questo caso (come si è visto nell’episodio
della donna cananea) abbiamo un cammino in crescendo a tappe successive. Si
parte dalla ricerca del dialogo personale (v. 15), fallito il quale si deve chiedere
l’aiuto di qualche amico (v. 16). Se anche questo tentativo non ottiene
risultati positivi si potrà procedere ad un processo pubblico (v. 17). Di
fronte all’ostinazione del fratello nel rifiuto di riconoscere i propri torti
non rimane altra soluzione che lasciarlo ad affrontare le conseguenze delle sue
scelte sbagliate (v. 17).
La conclusione è sconvolgente. Lo è almeno
per una mentalità che sta prendendo piede nella società attuale. Oggi si
vorrebbe per ogni vicenda drammatica una assoluzione generale di tutti i
(cosiddetti) colpevoli, del tipo “Liberi tutti!” del famoso gioco che facevamo
da bambini.
Ma la vita non è un gioco. Gesù ci invita a
prenderla sul serio, ci apre gli occhi sulle nostre responsabilità. Se
prendiamo delle decisioni dobbiamo anche avere il coraggio di portarne le
conseguenze senza accusare sempre e soltanto gli altri.
Gesù però chiede anche ai discepoli di non
“abbozzare” (diremmo noi) di fronte ai torti ricevuti. L’amore verso il
fratello che ci ha offesi esige che si tenti ogni strada per convincerlo del
suo sbaglio. Diversamente si diventerebbe conniventi e corresponsabili dei
soprusi e delle violenze collaborando a diffondere il male anziché cercare di
estirparlo. Non si sarebbe “costruttori di pace” ma strumenti di guerra.
E VENIAMO AI GIORNI NOSTRI
Mi auguro che sia solo una mia impressione, ma
oggi si riflette poco su questo aspetto dell’insegnamento di Gesù. Forse non ci
si pensa, o si ha paura di andare contro corrente, o si teme di essere accusati
di integralismo.
Sono pensieri che mi sono venuti in mente
questa domenica mattina al termine della celebrazione della messa, quando ho
letto su un quotidiano nazionale la notizia (ripresa poi da altri quotidiani) delle
perplessità che ha suscitato in qualche ambiente benpensante lo scritto di
mons. Tommaso Ghirelli vescovo di Imola. Il quale, al di là del tono che si è
voluto dare alle sue parole, non chiede ai fratelli islamici niente altro che
di dichiarare pubblicamente la loro volontà di dissociarsi in massa dalle
violenze disumane perpetrate da alcuni loro correligionari.
Si ripete continuamente che la maggioranza
degli islamici sono contrari alla violenza, e anch’io sono convinto che lo sono.
Ebbene, il vescovo ha offerto loro l’occasione di dimostrare questa loro
lodevole volontà di pace con qualche gesto significativo che sia comprensibile
anche alla nostra sensibilità. Ma che sia anche un impegno leale che si
assumono di fronte a tutto il mondo. Insomma, che i moderati escano allo
scoperto e formino un’opinione pubblica significativa nei loro ambienti.
Tutto qui. Non vedo che cosa ci sia di
riprovevole a chiedere di manifestare quello che si dice di volere. Anche per
evitare ogni equivoco, ogni appiglio per insinuare dubbi e sospetti. La
chiarezza nei rapporti non solo tra persone singole ma anche tra gruppi di
qualsiasi tipo è fondamentale per poter attuare una convivenza serena e
produttiva per tutti.
Se manca questa trasparenza rimane sempre il
sospetto che le parole nascondano, per motivi inconfessabili, simpatie e
collusioni con chi commette atrocità che la nostra società ha condannato apertamente.
Anche se poi tra di noi c’è sempre qualcuno che trasgredisce, ma che comunque
cerchiamo di isolare, come si fa proprio in questi giorni con chi può essere un
diffusore di Ebola.
La parola “vescovo” deriva dal greco
“episcopos”, cioè “colui che guarda dall’alto”, che è come dire “sentinella” di
un gruppo di persone che si affidano alla sua vigilanza. Se la sentinella di
Imola ha dato un allarme penso che sia ragionevole svegliarsi per essere pronti
ad ogni eventualità, sempre con la speranza e il desiderio che non ci sia
bisogno di intervenire contro gli assalitori.
E non tiriamo fuori il solito spauracchio
delle crociate. Non credo proprio che sia il clima che si respira nelle nostre
sacrestie. Chi lo pensa, evidentemente non le frequenta molto e forse ha ancora
in mente gli anni quaranta del secolo scorso quando si cantava ”un esercito ha
l’altar!”.
Spero sia solo una mia impressione, ma oggi
sembra che si debba parlare piuttosto, con una certa giustificata
preoccupazione, di “mezzelunate”. Mi si passi il neologismo, che certamente richiamerà
alla mente di qualche fratello un certo Pierre l’Ermite di cui però non
condivido assolutamente né ideali né metodi.
Il rifiuto e la condanna della violenza non
ci portano a condannare il fratello violento, ma a fare tutto il possibile
perché cambi il suo comportamento e cessi la violenza. Questo ci chiede il
vangelo, non di far finta di niente. Se non ci impegniamo a trasformare in
meglio questo nostro mondo non possiamo dirci cristiani. Anche se ci siamo sentiti
ripetere per secoli che un buon cristiano deve disinteressarsi del mondo e
pensare solo al paradiso.
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